
Ardita: ”Le mafie comandano in carcere a causa di scelte ministeriali”
"È noto da anni che le carceri sono sotto il controllo della criminalità mafiosa. La genesi di tutto questo è chiara agli addetti ai lavori, ma rimarrà sconosciuta ai cittadini fino a che non se ne occuperà una commissione di inchiesta". È lapidario il commento del procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita ai microfoni del Corriere in merito a quanto emerso dalla maxioperazione antimafia di Palermo. “L’alta sicurezza in carcere è in mano alla criminalità”, aveva detto - quasi sorpreso - il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo durante la conferenza stampa presso la Caserma Carini.
Non una novità per il procuratore Ardita, che per anni è stato direttore generale del Dipartimento detenuti e trattamento del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) e più volte aveva evidenziato come lo Stato da tempo avesse "rinunciato all'alta sicurezza cioè alla gestione penitenziaria dei mafiosi differente da quella dei comuni”.
"Le parole di Maurizio de Lucia sono illuminanti, perché la responsabilità è ascrivibile a una sciagurata scelta di gestione - ha aggiunto Ardita -. Col pretesto del sovraffollamento delle carceri si è deciso di aprire le celle dei mafiosi, il che consente ai più pericolosi di circolare e di assumere il controllo dei penitenziari, provocando peraltro la mattanza dei diritti dei reclusi più deboli. Lo attesta l’impennata di reati, atti di autolesionismo e suicidi: un cedimento alla sicurezza e al benessere con l’alibi della tutela dei diritti dei detenuti". Uno spaccato documentato con dovizia di particolari anche in un suo recente libro: Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere" (edito da Solferino).
Questa scelta di gestione "è consacrata in circolari ministeriali e singole disposizioni che si pongono in rapporto di causa ed effetto con le migliaia di reati, aggressioni, rivolte consumate negli ultimi anni e col governo delle carceri ormai condizionato dagli interessi mafiosi - ha spiegato -. Si tratta di una gestione pubblica disastrosa con profili di responsabilità contabile, civile e forse anche penale mai approfonditi. Il danno economico complessivo che ne deriva è inestimabile, ma può misurarsi in miliardi di euro, tenuto conto del pregiudizio alle persone, alle cose e alla prevenzione antimafia. Cosa potrebbero fare gli agenti, vessati e messi in ginocchio da questo regime, per impedire il governo della mafia in carcere legittimato dalla organizzazione interna?"
Per invertire la tendenza, ha continuato il procuratore catanese, è necessario "riscrivere le regole ripartendo da un modello di civiltà e di speranza per i reclusi, impedendo alla minoranza dei mafiosi e dei pericolosi di comandare e vietando in modo assoluto l’autogestione degli spazi condivisi". E poi il monito: "Non si capisce che un telefono in mano a un capo mafia in cella può essere il mezzo con cui si ordina un omicidio. Quando dirigevo l’ufficio detenuti, se veniva scoperto un dispositivo, chi lo introduceva era sottoposto al 14bis, paragonabile al 41bis, e gli utilizzatori venivano trasferiti. In un anno abbiamo sequestrato una decina di cellulari. Oggi ne entrano a migliaia e si fa finta di niente". E, come se non bastasse, nel quadro generale della giustizia italiana il carcere rischia sempre più di essere il luogo dell'abbandono del condannato. Perdendo, di fatto, le "due funzioni principali: a sicurezza dei cittadini e la rieducazione dei condannati. Solo una classe dirigente preparata e appassionata potrà interrompere il binomio retorica-incompetenza che grava sulle scelte non sottoposte al controllo costante dei cittadini. Ma il primo passo deve essere la consapevolezza degli errori commessi negli ultimi anni".