18 Settembre 2024 Sport Cultura Spettacolo

“TOTÒ SCHILLACI RESTERÀ IMPRENDIBILE” di Fabio Mazzeo

di Fabio Mazzeo - È nato calzando scarpe bucate, e a 26 anni ha vinto la scarpa d’oro Adidas come cannoniere del mondiale.

Prima dei social e delle mogli wags, la Sicilia ha regalato al calcio l’ultima storia che Osvaldo Soriano avrebbe potuto inserire nel suo “Pensare coi piedi” o in “Futbol”.

Perché quella di Totò Schillaci è pura epica calcistica.

È stato l’idolo assoluto del “Giovanni Celeste”, un catino che proprio come quelli d’Argentina o Uruguay non ha mai avuto la presunzione di essere chiamato “stadio”. Semmai un campo sportivo perimetrato da quattro tribune di tubi innocenti con tavole di legno e cemento, dove ogni due settimane andava in scena una liturgia laica.

Mezz’ora prima del calcio d’inizio, sul rettangolo di gioco arrivavano i calciatori per il riscaldamento, e il ragazzo di Palermo che Messina adottò cominciava a zigzagare col pallone con cambi di direzione velocissimi.

Totò dribblava sempre. 

Prima dell’inizio della gara saltava gli avversari immaginari. E con la stessa agilità, al calcio d’inizio, li saltava davvero.

Totò giocava un calcio “sporco”, individuale nel senso che lo aveva tutto in testa; e per molti quel calcio era imprevedibile, per alcuni proprio incomprensibile.

La sua era una continua sfida con il singolo avversario che provava a opporsi tra il campo da percorrere e il tiro. Era veloce, era tecnico, vedeva la porta. Il gol era puro istinto. Nessuna di queste cose gli era stata insegnata. Niente scuola, niente scuola calcio, niente maestri di schemi e tattica.

Per lui la lezione era arrivata da più lontano, era il bagaglio carico di talento con il quale era venuto al mondo il primo dicembre del 1964.

Niente in lui era costruito. Che può mai esserci di costruito in quello sguardo che gli italiani conobbero ai mondiali del 1990? I fedelissimi del Celeste avevano già imparato a riconoscerlo; era guardandolo dagli spalti che gli chiedevano un altro miracolo, un altro gol.

Schillaci dribblava, segnava e non parlava. Mai.

Gli archivi messinesi degli anni 1982-1989 conserveranno cinque o sei interviste in tutto.

Senza il pallone tra i piedi, la sfrontatezza del giocatore lasciava spazio alla timidezza, a volte a qualcosa di simile alla malinconia. In quei 110 metri per 90 andava in scena il genio, nel mondo fuori Totò sembrava sempre smarrito, non c’era la linea laterale per partire in dribbling, non c’era la porta avversaria da puntare.

I compagni di allora, tutti parte di un’altra epica che il condottiero Franco Scoglio ribattezzò “I miei bastardi”, gli facevano scudo. Totò non doveva essere importunato, non doveva essere intervistato.

Antonio Bellopede, Romolo Rossi, Beppe Catalano, Alberto Diodicibus furono i fratelli maggiori chiamati a custodire quel talento. In campo litigavano per lui, fuori lo proteggevano dal disagio, dal rumore di fondo intorno al calcio.

Su un campo di gioco che era più terra e fango che erba, Schillaci ha segnato tra serie C 2 e serie B 61 gol, saltato centinaia di avversari che a fine partita si consolavano parlando del ragazzo del Messina come di un avversario semplicemente imprendibile.

Zeman, che nel 1988 era il più moderno degli allenatori in Italia, fece in modo che il talento trovasse la maturità all’interno non di uno schema, per Totò sarebbe stato impossibile, ma di una vittoria di squadra. E tra incomprensioni iniziali, due interventi ai menischi alle spalle e metodi di allenamento tutti nuovi, Schillaci realizzò 23 gol.

Per Boniperti era un giocatore da sette miliardi di lire. Per i messinesi fu stupore e in qualche misura anche lutto: il Celeste senza Schillaci cosa sarebbe stato? Ma poi, davvero Schillaci avrebbe potuto fare a meno di Messina, del Messina, di Totò Schillaci facci un gol?

I tifosi sono così, l’epica la leggono sventolando una sola bandiera.

Il ragazzo di poche parole e col dribbling in testa arrivò alla Juventus, scrivendo la storia che tutti gli appassionati di calcio conoscono. I mondiali col titolo di capocannoniere, la celebrità, le prime timide interviste a quel punto inevitabili.

E poi l’Inter, il Giappone, e Totò che era l’immagine dell’Italia nel mondo. 

Star senza sistema, i suoi occhi sgranati sopra la leggerezza in campo senza più una maglia da titolare diventarono senza allegria, nella goffaggine dei reality tv. Mancava il pallone.

E senza pallone era un altro Totò.

Adesso che, a 59 anni, ci ha lasciato per sempre, resta l’epica del calcio. E nasce la speranza che sia andato a giocare altrove.

In questo mondo era arrivato indossando scarpe bucate, lì se vuole potrà indossare la scarpa d’oro Adidas, che ha vinto lui, con la sua forza, il suo istinto.

Chi lo ha conosciuto sa che se gli consentiranno di scegliere, lui nuovamente libero metterà quelle coi tacchetti consumati e il cuoio rattoppato.

E i messinesi, noi, che negli anni ’80 andavano al campo sportivo Giovanni Celeste per vedere quel ragazzo arrivato da Palermo sono riuniti ancora tutti su quei gradoni, occhi sgranati in attesa di incrociare quelli di Totò.