Le motivazioni della sentenza: «Non provate le accuse per l’ex pm Canali»
Non è stata raggiunta alcuna prova credibile che il magistrato Olindo Canali, per lungo tempo pm a Barcellona Pozzo di Gotto e fulcro di tante indagini antimafia, poi giudice a Milano, sia stato pagato da Cosa nostra barcellonese per “aggiustare” un processo del boss poi pentito Carmelo D’Amico o per tentare di scagionare il boss Giuseppe Gullotti come mandante dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano, con il suo “memoriale-testamento” finito poi tra gli atti del maxiprocesso Mare Nostrum.
E proprio le dichiarazioni con cui il pentito D’Amico ha accusato a suo tempo l’ex pm Canali d’aver fatto tutto questo, non sono state ritenute veritiere, anzi illogiche e prive di riscontri: «... ciò che emerge, in definitiva non è solo l’assenza di riscontri al narrato del collaboratore quanto, piuttosto, la prova negativa del narrato del D’Amico sulla genesi del rapporto corruttivo e sul momento di conclusione dell’accordo», in una vicenda «che presenta oggettivi profili di incertezza non superabili e tali da non poter che condurre ad una pronuncia assolutoria».
È sostanzialmente questo il nucleo centrale delle motivazioni della sentenza d’appello con cui il magistrato originario di Lissone è stato assolto anche in appello, dopo aver rinunciato alla prescrizione, così come era avvenuto in primo grado, dalla pesante accusa di corruzione in atti giudiziari con l’aggravante di aver agevolato la mafia barcellonese in cambio di denaro.
Le motivazioni della seconda sentenza assolutoria, che temporalmente è stata adottata a maggio, sono state depositate in questi giorni. Le ha scritte il presidente della seconda sezione penale della corte d’appello di Reggio Calabria Pietro Scuteri
Ad accusare Canali era l’ex boss barcellonese, oggi pentito, Carmelo D’Amico, coimputato nel procedimento. Anche lui è stato assolto in appello e in primo grado. D’Amico nel 2016 si autoaccusò d’essere il corruttore. E disse di aver pagato due magistrati per far aggiustare un suo processo, in cui rischiava l’ergastolo. Dalle carte secondo l’accusa emergeva anche il concorso nel reato come intermediario, e il «rapporto di assidua frequentazione» che Canali aveva con il medico Salvatore Rugolo, figlio di don “Ciccino” Rugolo, vecchio capomafia barcellonese, e cognato del boss - per lungo tempo capo della “famiglia” barcellonese - Giuseppe Gullotti, che sposò sua sorella Venera. La prima ipotesi di corruzione in atti giudiziari - tra il 1997 e il 14 aprile 2000 -, riguardava l’attività che Canali svolse in relazione al primo processo per il triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino del 4 settembre 1993. Un caso in cui lavorò come “applicato” alla Procura di Messina. L’altro caso di corruzione in atti giudiziari contestato - tra il 2008 e il 2009 -, in concorso con Rugolo, D’Amico, e il boss Gullotti (era coinvolto anche lui come imputato, ha scelto la strada del processo ordinario e non l’abbreviato, n.d.r.), vedeva al centro il maxiprocesso “Mare Nostrum” e l’indagine per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano.
Il primo punto importante affrontato nelle motivazioni è forse quello legato ai presunti “pagamenti”. Scrivono tra l’altro i giudici reggini che, prescindendo dal narrato di D’Amico che disse di aver consegnato il denaro a Rugolo come “mediatore”, «... in ogni caso gli accertamenti patrimoniali a carico dell’imputato Canali hanno dato esito negativo. Dalla informativa del Comando provinciale CC di Messina del 13 luglio 2017, risulta infatti, che nel periodo d’interesse investigativo non sono state rilevate movimentazioni di denaro sui conti correnti del Canali od acquisiti di beni, mobili ed immobili, compatibili con le dazioni di denaro oggetto di indagine. A prescindere da chi materialmente abbia consegnato i soldi al D’Amico manca dunque la prova (a riscontro del narrato del collaboratore), che tale somma sia stata consegnata al Canali e che costui ne abbia avuto la disponibilità. Anzi - proseguono i giudici -, gli esiti degli accertamenti - che, come detto, non hanno evidenziato flussi anomali di denaro - induce ad escludere che il Canali nel 1998-1999 ( e anche successivamente) abbia ricevuto o avuto la disponibilità di somme di denaro che non avessero lecita tracciabilità».
Ma non è solo questo aspetto, sicuramente preminente, che ha convinto i giudici sulla inattendibilità delle dichiarazioni del pentito D’Amico in questa vicenda. Nelle trenta pagine di motivazioni vengono esaminati poi i mancati riscontri temporali credibili al periodo di frequentazione tra l’ex pm Canali e Rugolo, ai luoghi in cui si sarebbe perfezionato il presunto “accordo corruttivo”, in particolare in un paio di bar di Barcellona Pozzo di Gotto, e anche al presunto incontro che il collaboratore D’Amico ha detto di aver avuto con il magistrato in uno di questi locali, per comprendere se “l’offerta” era stata accettata. Fonte: Gazzetta del sud
La sentenza.
La sentenza d’appello che a Reggio Calabria ha assolto il magistrato Canali risale al 16 maggio di quest’anno. E ha confermato il verdetto di primo grado del novembre 2022. La decisione è della seconda sezione penale d’appello di Reggio Calabria, presieduta dal giudice Pietro Scuteri, che ha anche redatto le motivazioni, depositate in questi giorni. La stessa accusa, in questo caso il sostituto procuratore generale Santi Cutroneo aveva chiesto l’assoluzione al processo d’appello. La Procura generale di Reggio Calabria aveva però in precedenza appellato la prima sentenza assolutoria. L’ex pm Canali è stato difeso in questo procedimento dall’avvocato Ugo Colonna, Carmelo D’Amico dall’avvocato Antonietta Pugliese. La parte civile, che così come la Procura generale aveva appellato l’assoluzione del primo grado, è stata sostenuta dagli avvocati Fabio Repici per la famiglia Alfano, e Filippo Barbera per i familiari di Giuseppe Martino.
Nel corso di uno dei suoi interventi l’avvocato Ugo Colonna aveva tra l’altro sottolineato la chiara inattendibilità del pentito Carmelo D’Amico, e poi aveva puntato l’attenzione anche su altri aspetti. Due su tutti: la conoscenza tra il magistrato e Rugolo non si poteva far risalire al 1998, ma era databile a dopo il 2001, e per quanto riguardava il memoriale non era ravvisabile il concetto di “atto d’ufficio” ma si trattava invece di un “atto privato”.
La formula assolutoria adoperata dai giudici d’appello è stata di conferma di quella assunta in primo grado dalla gup di Reggio Calabria Vincenza Bellini, quindi è diversificata. Per la vicenda del triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino ha confermato la scelta dell’art. 530 secondo comma, la tradizionale “insufficienza o mancanza di prove”. Per il caso del memoriale, invece, ha confermato la formula che “il fatto non sussiste”.