14 Agosto 2024 Sport Cultura Spettacolo

‘L’arto fantasma’ di M. M. Zanghì chiude la stagione del Cortile Teatro Festival. In scena la voce di chi è stato dimenticato nella strage di Giampilieri

Di Tonino Cafeo - Nel cuore di un'estate che sembra invincibile è difficile pensare a come la pioggia e il fango possano distruggere vite a decine e stravolgere l’esistenza di un’intera comunità. Eppure è necessario tornare con la memoria alla più grave strage avvenuta nel messinese negli ultimi decenni: l’alluvione di Giampilieri e Scaletta del primo ottobre 2009, che in una sola notte terribile fece 37 vittime , fra morti e dispersi.

Michelangelo Maria Zanghì, attore, autore e regista messinese, ha dato un contributo efficace al ricordo e alla riflessione critica su questo episodio della nostra storia recente con il suo L’arto fantasma. Un lavoro teatrale andato in scena nel suggestivo spazio della Tenuta Rasocolmo, a chiusura del Cortile Teatro Festival edizione 2024, che si è rivelato come uno dei gioielli della rassegna estiva ideata e portata avanti da Roberto Bonaventura, Giuseppe Giamboi  e Stefano Barbagallo.

La sindrome dell’arto fantasma è quella patologia che colpisce le persone che hanno subito l’amputazione  di un arto. Consiste nel continuare a sentire la mano o la gamba mancante come se fosse ancora al suo posto. Il soggetto che si trova in questa condizione percepisce acutamente sensazioni tattili e spesso dolori lancinanti. Una metafora potente che Zanghì ha scelto per mettere in scena il ricordo dei lutti causati dell’alluvione senza ricorrere alla pura cronaca ma scavando in profondità nella condizione psicologica di chi ci ha perso un amico o un familiare e, per estensione,  nella condizione umana di una comunità rimasta ferita non solo dalle forze della natura ma soprattutto dall’incuria  del territorio e dalla rimozione da parte della classe dirigente e di un intero paese.

I personaggi che appaiono in scena, Fortunato (Michelangelo Maria Zanghì), Agata( Nunzia Lo Presti) ed Elio(Alessio Bonaffini) – tutti e tre efficacissimi -  fanno i conti ciascuno a suo modo  con una mancanza, con una cesura profonda nelle loro vite, ma – proprio come accade nella sindrome che da il titolo al lavoro - i loro sogni interrotti, le loro emozioni, i loro ricordi, le loro paure vivono ancora e si ripresentano davanti agli spettatori evocando le immagini di quei giorni di dolore e sovrapponendosi a esse, oltre la fredda cronaca, per diventare lacerti di una memoria collettiva di cui  avere cura per rimettere mano al tema del vivere insieme, dell’identità di una città che sembra smarrirsi nell’anonimato.  Chi occupava pro tempore le istituzioni nel 2009 si fece prendere di sorpresa dagli eventi, nonostante non fossero mancate le avvisaglie di pericolo, e reagì in maniera noncurante prendendosela con gli abitanti (l’abusivismo edilizio come causa principale individuata) e proponendo con leggerezza la ricostruzione altrove delle abitazioni distrutte. Il lavoro di Zanghì, Bonaffini e Lo Presti risponde idealmente dopo quindici anni a quelle chiacchiere vuote trasformando i numeri freddi dei rapporti di protezione civile in nomi e cognomi, storie di vita, frammenti di coscienza. Fino al grido straziante di rabbia di Elio, che scava  a mani nude nel fango alto fino ai balconi delle case e invoca una cura per il male che insieme a lui ha colpito un’intera città.

La cura può essere il teatro? Secondo Zanghì il teatro al massimo può essere “un viatico” . Ma i segnali che lancia uno spettacolo teatrale possono o meno essere raccolti dalla comunità a cui si rivolge. Se non accade non è certo colpa dei teatranti e del loro lavoro quanto piuttosto dello stato di salute della società.