Sull’omicidio Mormile può essere riscritta la verità
di Aaron Pettinari - Trentaquattro anni dopo la causale dell’omicidio di Umberto Mormile, educatore del carcere di Opera ucciso dalla 'Ndrangheta nelle campagne di Carpiano, l'11 aprile 1990, può essere vista sotto un'altra prospettiva.
Lo certifica il gup di Milano, Marta Pollicino, nelle quasi 170 pagine di motivazioni della sentenza del 15 marzo scorso con cui sono state inflitte le condanne a 7 anni per i collaboratori di giustizia Salvatore Pace e Vittorio Foschini. Entrambi erano finiti imputati dopo la riapertura delle indagini fortemente voluta da Stefano Mormile, fratello dell'educatore carcerario, Daniela e Nunzia Mormile, figlia e sorella di Umberto. Tutti rappresentati dall'avvocato Fabio Repici.
Anni fa, per il delitto, erano già stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia, Franco Coco Trovato e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Nelle sentenze di quei processi si stabiliva che “l’omicidio doveva essere consumato nell’interesse di Domenico Papalia” in quanto “l’educatore non aveva aiutato il Papalia ad accedere a dei benefici carcerari”. E l'educatore carcerario veniva dipinto come un corrotto che non era stato ai patti.
Ma la verità era ben diversa.
A raccontarla gli stessi imputati, Vittorio Foschini e Salvatore Pace, con dichiarazioni autoaccusatorie, ma anche i collaboratori di giustizia Antonino Fiume ed Antonino Cuzzola che hanno parlato in maniera chiara dei rapporti di altissimi livello che la famiglia Papalia aveva dentro e fuori dalle carceri.
E poi ancora atti e riscontri ottenuti grazie al lavoro dei familiari di Mormile e le indagini condotte dalla Procura di Reggio Calabria nell'ambito dell'inchiesta sulla 'Ndrangheta stragista.
Scrive il gip che ci sono prove documentali e dichiarative che “inducono a ritenere che la morte di Umberto Mormile si possa e (forse si debba) oggi contestualizzare - o meglio ricontestualizzare - alla luce di un'altra 'verità'”.
Questa “non è l'unica possibile, ma certamente è, da quanto si è cercato di far emergere nelle presenti motivazioni, concretamente prospettabile, in un oscuro, ma verosimilmente ormai disvelato, intreccio di poteri e di precari equilibri tra forze, solo apparentemente antitetiche in quella ben precisa fase storica in cui, solo una sinergica e coordinata lettura delle risultanze probatorie - di questo e di altri procedimenti - consente di poter collocare il fatto omicidiario in oggetto".
La giudice riporta, in particolare ma non solo, le parole di Nino Cuzzola, collaboratore di giustizia sentito negli scorsi anni nel Processo "'Ndrangheta stragista" e quello sulla trattativa Stato-mafia.
Rispondendo alle domande del pm di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, aveva confermato che il delitto lo aveva ordinato Domenico Papalia e che il motivo era legato alla sua conoscenza dei rapporti che il boss aveva con i Servizi segreti, grazie ai quali “otteneva i permessi”.
Un "movente omicidiario", sintetizza la gup, che diverge molto da altre tesi "diffamatorie" e anche da altre più "rispettose" della "memoria della vittima", come quella che sostiene che non accettò di farsi corrompere da Domenico Papalia, detenuto. La "verità" di Cuzzola e di altri pentiti, spiega la giudice, "nella sua lineare coerenza" è "forse quella, tra le varie prospettabile e prospettate" più "in linea" con "i dati".
La rivendicazione “Falange Armata”
I pentiti, inoltre, hanno anche spiegato perché il delitto fu rivendicato con la sigla della “Falange Armata”.
Quella denominazione, che nel 1990 faceva la sua prima comparsa, fu utilizzata anche per rivendicare stragi ed altri delitti eccellenti. Dagli omicidi del politico Dc Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, alle bombe di Capaci e via d'Amelio, per poi passare alle stragi "continentali" di Roma, Firenze e Milano nel 1993. Successivamente fu utilizzato anche per rivendicazioni politiche, e delitti come quelli della Uno Bianca.
E la Gup, riprendendo le posizioni della parte civile, dà atto che nei processi precedenti sul delitto “la Corte non prendeva posizione sul rilievo delle rivendicazioni ma considerava del tutto false le rivendicazioni stesse sul presupposto che, essendo pacifico che il delitto era maturato in un contesto di 'Ndrangheta, nulla c'entravano (ed erano evidentemente operazioni di sciacallaggio o poste in essere da mitomani) le vere o presunte organizzazioni terroristiche, quali la Falange Armata. In altri termini la Corte non aveva considerato, non avendo gli elementi per farlo, che potesse essere stata la stessa 'Ndrangheta, che per depistare le indagini aveva in tutto o in parte, effettuato le suddette rivendicazioni”.
Fatto che invece è stato raccontato proprio dai collaboratori di giustizia.
Cuzzola ha raccontato che il primo a parlargli della sigla era stato Antonio Papalia dopo l'omicidio. Una sigla che “serviva per depistare. Mi dice: 'stai tranquillo, non ti preoccupare che andiamo assolti, non indagheranno su di noi', che c'erano state queste telefonate fatte fare da uno che loro usavano anche per rivendicare i sequestri. Lo pagavano 5 milioni per andare là. Mi dice che avevano chiamato l'Ansa".
Un altro aspetto lo ha poi aggiunto lo stesso imputato Foschini.
Quando fu sentito dai magistrati Giuseppe Lombardo e Franco Curcio, sul delitto sostenne anche che i Servizi, informati dallo stesso Papalia, avrebbero dato una sorta di “sta bene”. E sempre gli apparati avrebbero raccomandato di rivendicarlo con la sigla terroristica della “Falange Armata”.
Anche per questo le motivazioni della sentenza contro Foschini e Pace assumono un peso.
Al processo si è arrivati dopo che il giudice aveva rigettato una richiesta di archiviazione accogliendo l'opposizione dell'avvocato Repici. La famiglia aveva sempre sostenuto che l'educatore venne sì ucciso dalla 'Ndrangheta, ma con una sorta di nulla osta dei servizi segreti deviati.
“Per decenni la memoria di Umberto Mormile, fedele servitore dello Stato, è stata vigliaccamente infangata con la costruzione dell'immagine, spudoratamente falsa, di un educatore penitenziario incline a favorire, per denaro, Domenico Papalia - aveva scritto l'avvocato Repici nella sua memoria difensiva - Ci sono state sentenze del passato (in atti) che hanno avuto l'orrido coraggio di ipotizzare inesistenti condotte indebite di Umberto Mormile e, contemporaneamente, di far finta che i provvedimenti di cui Domenico Papalia per decenni effettivamente non portassero la firma e i nomi di tutt'altre persone. Non si era mai voluto nemmeno accertare se fosse vero che esponenti dei servizi segreti entrassero fuori dall'ufficialità nelle carceri italiane”.
Quindi concludeva: “A quasi trentaquattro anni di distanza dall'assassinio di Umberto Mormile, è arrivato il tempo che la Giustizia consegni finalmente verità e giustizia a Daniela Mormile, privata del padre quando era solo una bambina, e a Nunzia e Stefano Mormile, fratelli della vittima, dimostrando loro che la Giustizia è consapevole che l'omicidio del loro padre e fratello è stato un delitto commesso contro un fedele servitore dello Stato e, conseguentemente, è stato un vulnus arrecato non solo, enormemente, alle loro private esistenze, ma anche all'intera Nazione”.
Con questa sentenza un piccolo passo è stato fatto. Adesso però si deve avere il coraggio di andare oltre e capire cosa c'era dietro a quegli intrecci oscuri tra 'Ndrangheta ed apparati. Fonte: antimafiaduemila.com