Verbali di Amara, i giudici su Davigo: “Consapevole di gettare sinistra luce sull’operato della Procura di Milano e su Sebastiano Ardita”
A tre mesi esatti dalla sentenza sono state depositate le motivazioni della condanna in appello per l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo. L’ex pm, accusato di rivelazione del segreto d’ufficio in merito alla vicenda relativa alla diffusione dei verbali in cui l’avvocato Piero Amara parlava dell’esistenza della Loggia Ungheria, ha “portato a conoscenza di una selezionata platea di destinatari notizie coperte da segreto investigativo attraverso una serie di incontri informali, pur consapevole di gettare una sinistra luce sull’operato della Procura della Repubblica” di Milano “e sui due colleghi del Csm, dottori Mancinetti e Ardita”. La condanna, a un anno e 3 mesi, con pena sospesa e non menzione, sarà impugnata in Cassazione come fa sapere il legale Davide Steccanella:”Un avvocato le sentenze non le commenta, se non le condivide, le impugna. A questo punto l’ultima parola spetterà alla Corte di Cassazione”.
I giudici di secondo grado nelle 115 pagine di motivazioni spiegano che Davigo – il quale ha sempre detto di aver agito “in buona fede” e per “ripristinare la legalità” – ha messo in atto “una serie di irrituali e illecite confidenze, che poi hanno sortito quell’effetto finale di una fuga di notizie ‘senza eguali precedentì, già stigmatizzata dall’Autorità giudiziaria umbra”. Al centro della vicenda c’erano i verbali su una inesistente loggia resi da Amara tra dicembre 2019 e gennaio 2020 nell’ambito dell’indagine milanese sul cosiddetto falso complotto Eni. Verbali consegnati a Davigo nell’aprile successivo dal pm di Milano Paolo Storari (assolto in via definitiva) per autotutelarsi di fronte, a suo dire, ad una presunta inerzia dei vertici del suo ufficio. I giudici d’appello spiegano che “non è compito di questa Corte comprendere la ragione” per cui Davigo abbia agito in quel modo, anche perché il movente per il reato di rivelazione è “irrilevante”.
La Corte ha confermato il verdetto del Tribunale del giugno 2023, che aveva condannato Davigo anche a risarcire il magistrato Sebastiano Ardita, il cui nome era nell’elenco di coloro che, secondo Amara (a processo per calunnia), avrebbero fatto parte della fantomatica associazione segreta. Davigo, secondo quanto emerso dal dibattimento, parlò del caso con i tre componenti dell’epoca del comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli: David Ermini, Giovanni Salvi e Pietro Curzio. Del contenuto di quei verbali informò, in qualche caso mostrandoli, altri consiglieri e l’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra.
Nelle motivazioni la Corte (giudici Dalla Libera-Taramelli-Gurini), tra l’altro, muove critiche a Storari, assolto in via definitiva dall’accusa di rivelazione, sostenendo che nelle sentenze che “hanno avallato la sua versione, non si rinviene alcuna giustificazione in ordine alla ragione” per cui il pm “non abbia ritenuto di percorrere la strada maestra tracciata dall’ordinamento per porre rimedio all’asserito ostracismo del Procuratore” Francesco Greco “al suo anelito investigativo” sui verbali di Amara. Avrebbe dovuto “rivolgersi al soggetto istituzionale” che ha “il compito di vigilanza”, ovvero la Procura generale.
Per la Corte, “la piena conoscenza” di Davigo “dei limiti delle proprie attribuzioni” esclude “radicalmente, che egli possa poi avere ritenuto di adempiere un dovere”. Non credono i giudici alla tesi che le “propalazioni” di Davigo “sarebbero state dettate dalla volontà di riportare la vicenda sui binari della legalità e sventare un gravissimo attacco all’ordinamento giudiziario” di fronte all’inerzia della Procura milanese. Bastava che l’allora componente del Csm indirizzasse Storari “alla Procura generale” e, se questa strada “non fosse stata percorribile in ragione della ritenuta incapacità del suo reggente (l’Avvocato generale, ndr)”, avrebbe dovuto compulsare “il comitato di presidenza” del Csm “nella sua collegialità”, affinché decidesse come formalizzare il caso. Invece, l’ex pm di Mani Pulite ha scelto “una sovraesposizione personale del tutto singolare”. E ha insinuato “quanto meno il dubbio” nei destinatari delle “confidenze” sulla “appartenenza ad una loggia massonica del dott. Ardita”.