«Sviarono le indagini su via D’Amelio, condannate 3 agenti»
«Sviarono le indagini sulla strage di via D’Amelio. È un tradimento da parte degli apparati dello Stato che non può essere perdonato». È quanto ha affermato il procuratore generale Fabio D’Anna, davanti la Corte d’Appello di Caltanissetta, a conclusione della requisitoria del processo sul depistaggio delle indagini sull’attentato di via D’Amelio, in cui vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, che vede imputati tre ex poliziotti, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra e che fecero parte del pool investigativo “Falcone-Borsellino”, con a capo Arnaldo La Barbera. Il procuratore generale ha chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo e a 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. In primo grado, il tribunale di Caltanissetta, dichiarò prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, mentre Michele Ribaudo venne assolto.
«Perché questo depistaggio? - si è chiesto D’Anna -. L’unico interesse che spiega la pervicacia del gruppo investigativo Falcone-Borsellino è che loro sapevano perfettamente che con il loro comportamento stavano allontanando la verità dalle indagini, vuoi per proteggere apparati dello Stato vuoi per proteggere apparati mafiosi».
Un depistaggio che ruota, secondo l’accusa, rappresentata in aula anche dai sostituti procuratori generali Maurizio Bonaccorso e Gaetano Bono, attorno al ruolo ricoperto da Arnaldo La Barbera. Durante la loro requisitoria fiume, i due pg, hanno ripercorso le principali tappe che hanno condotto al più grande depistaggio della storia italiana segnato «dall’agenda rossa che venne presa ma non dalla mafia», da uomini dello Stato “infedeli”, da servizi segreti deviati e da falsi collaboratori di giustizia indottrinati e costretti a mentire.
Arnaldo la Barbera, prima dirigente della squadra mobile di Palermo e poi questore, in questo scenario fatto di menzogne, è una figura chiave. Era a capo del pool che indagava sugli attentati di Capaci e via D’Amelio, era il dirigente della squadra mobile di Palermo, apparteneva ai servizi segreti, era finanziato in nero dal Sisde ed era anche sul libro paga della mafia. «Un personaggio ambiguo - viene definito dal pg Bonaccorso - una figura centrale, un ponte tra due mondi, quello di Cosa nostra e quello dei servizi deviati, entrambi interessati al mancato accertamento della verità». Ecco chi era – per l’accusa – Arnaldo La Barbera. Parole che Bonaccorso pronuncia, rivolgendosi anche agli avvocati del collegio difensivo, nella speranza di «non sentire affermazioni, sul fatto che si processano i morti, chi non è in grado di difendersi, sugli schizzi di fango, così come fatto in primo grado». Proprio nel corso della scorsa udienza, Bonaccorso si era soffermato «sull’anomala collaborazione, per non dire inquietante, tra la procura di Caltanissetta e il Sisde nella fase preliminare delle indagini». All’indomani dell’attentato di via D’Amelio, l’allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, sollecitò una collaborazione con il Sisde che consegnò a Scarantino, fino ad allora un picciotto della Guadagna che si occupava di furti e contrabbando di sigarette, la patente di mafiosità».