Il ponte sullo Stretto di Messina paga pure Cosa Nostra: soldi per il casale di don Santo Sfameni
Va espropriato pure il terreno di Nino Sfameni, il figlio del boss deceduto: era ritenuto il prestanome del boss “Patriarca”. Adesso tra 'ndrangheta e cosa nostra il derby dei rimborsi è 1 a 1
Di Saul Caia - Sfogli il documento degli espropri, quelli previsti per la costruzione del Ponte sullo Stretto, e nel gelido linguaggio della burocrazia, dietro i numeri del catasto e di un codice fiscale, ci trovi un pezzo di storia di Cosa Nostra. La storia di un piccolo casolare di Villafranca Tirrena in provincia di Messina. Al suo interno una masseria – c’è chi dice una stalla – che funzionava da nascondiglio per latitanti e summit tra mafiosi del calibro di Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, o del boss di Bagheria Michelangelo Alfano. E così, nel conteggio degli espropri analizzati dal Fatto, tra gli eredi di don Ciccio Mancuso in Calabria e quelli di don Santo Sfameni detto “il patriarca” in Sicilia, il derby tra ’ndrangheta e Cosa Nostra per adesso è di 1 a 1. Ma torniamo a quelle quattro righe che raccontano di un piccolo, piccolissimo appezzamento di terreno.
Scavando, pian piano scopri che apparteneva a un boss che, se non fu condannato per mafia, ma “solo” per omicidio, è perché l’accusa fu stralciata. Il motivo: incapacità di stare a giudizio.
Scopri anche che, per qualche motivo, questo pezzo di terra scovato dal Fatto è sfuggito al resto dei beni che gli sono già stati confiscati e che, codice alla mano, lo Stato dovrebbe pagare per espropriarlo. Sembra davvero che il suo destino fosse quello di sfuggire ai controlli, visto che in fondo è sempre stato un nascondiglio. E lo rimborseremo al suo proprietario: il figlio, l’erede menzionato (non da indagato) negli atti dell’antimafia, ovvero Antonino (detto Nino).
Il terreno è infatti ancora oggi di proprietà del defunto boss e dei suoi parenti. Ed è nell’elenco degli espropri del progetto dalla società Stretto di Messina Spa e dal Consorzio Eurolink, guidato da Webuild. Stafeni “il patriarca” è stato definito da diversi collaboratori di giustizia un “intermediario o anello di congiunzione tra Cosa Nostra e alcuni magistrati”.
Scomparso a 83 anni, nel gennaio 2012, don Santo è titolare del “diritto di proprietà per 2/24” di una masseria-stalla, registrata “orti irriguo”, per una “superficie 1.326 mq”. Altri 2/24 sono intestati a Palma Bertino, sua moglie, e al figlio Antonino, detto Nino, citato in diversi atti giudiziari come “prestanome del padre nella gestione di attività imprenditoriali”. Nell’elenco degli espropri spuntano anche i terreni della Le.Ni. Immobiliare Srl, costituita da Santo alla fine degli anni 80 e trasferita al figlio, che a Saponara (Messina) possiede 9.289 metri quadri di “seminativo arborato”. Società confiscata in via definitiva nel gennaio 2006 a don Santo, moglie e figlio.
Don Santo fu condannato a 8 anni e 6 mesi, dal tribunale di Reggio Calabria, per lesioni riportate da un docente universitario messinese gambizzato in un agguato. Venne anche arrestato, nel maggio 1994, “in località San Saba (Messina)”, dopo otto mesi di latitanza. Incastrato dalle indicazioni fornite da un celebre collaboratore di giustizia: Luigi Ilardo, cugino di Piddu Madonia, numero due della Cupola guidata da Tòtò Riina. Lo stesso Ilardo ucciso nel 1996 mentre, come una sorta di “infiltrato”, stava indicando agli investigatori la pista che portava a Bernardo Provenzano. Due anni prima li aveva portati sulle tracce di don Santo. Il “patriarca” aveva iniziato la sua carriera da infermiere per poi passare all’edilizia. Una “persona molto rispettata in tutto l’ambiente”, dicevano di lui i collaborato di giustizia, “legato a esponenti di spicco della mafia palermitana, a disposizione di tutti i gruppi messinesi”, “intermediario o anello di congiunzione tra i malavitosi ed alcuni magistrati spesso invitati nella masseria”.
Aveva “rapporti di amicizia con il comandante della locale stazione dei carabinieri, grazie ai quali si consentiva ai latitanti protetti di muoversi tranquillamente armati a Villafranca”.
Nel terreno che lo Stato dovrà rimborsargli, verosimilmente, passeggiò anche con il “ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”, Angelo Siino, e siamo davvero nell’aristocrazia mafiosa. Fu proprio Siino a raccontare di aver incontrato Sfameni “per discutere”, ma guarda un po’, “in merito a un appalto di opera pubblica nella zona di Villafranca”. Sfameni fu poi arrestato nel 1999 (inchiesta “Witness”) insieme all’imprenditore bagherese Michelangelo Alfano e al collaboratore di giustizia Luigi Sparacio: per la Dda di Messina erano i promotori di Cosa Nostra nel Messinese, in grado di indirizzare indagini e processi giudiziari grazie ai loro rapporti con forze armate, giudici e magistrati. A don Santo sequestrano beni per 15 milioni.
Fino al 2006 è stato sorvegliato speciale. La commissione antimafia nella sua relazione scrive che “Francesco Paolo Bontade, padre di Stefano e Giovanni, trascorse gli ultimi sei mesi di vita come riverito degente presso il reparto di neurologia dell’ospedale Regina Margherita di Messina, dove morì il 25 febbraio 1974. Proprio dove, nello stesso periodo, lavorava come infermiere, nello stesso reparto, Santo Sfameni, che “subito dopo la morte di Bontade senior divenne un facoltosissimo imprenditore edile”. Il patriarca per la commissione è “uomo d’onore di antichi legami con Cosa Nostra palermitana e con la ’ndrangheta, in particolare con il famoso Mimmo Piromalli, anch’egli nel 1978 protagonista di una lunga e riverita degenza ospedaliera a Messina”.
Ma soprattutto, il nome di don Santo è legato alla morte della 17enne Graziella Campagna. Fu uccisa a Villafranca Tirrena il 12 dicembre 1985. La ragazza lavorava in una lavanderia. E aveva scoperto la vera identità dei due latitanti palermitani Gerlando Alberti jr, nipote di Gerlando Alberti “U Paccarè”, e Giovanni Sutera, entrambi protetti da don Santo. Nel 1990 il giudice Marcello Mondello proscioglie dall’accusa i due indagati. Molti anni dopo si scoprirà il suo stretto legame con Sfameni, che lo porterà alla condanna in secondo grado per concorso esterno a 7 anni, poi prescritta nell’appello bis, mentre Alberti e Sutera saranno condannati a distanza di 23 anni all’ergastolo. Fonte: Il fatto quotidiano