Presentato a Siena “Il Patto”, con Sigfrido Ranucci e Fabio Repici
Di Karim El Sadi e Giuseppe Cirillo - Con la presentazione del libro “Il Patto. La trattativa tra Stato e mafia nel racconto inedito di un infiltrato”, di Sigfrido Ranucci e Nicola Biondo, si è conclusa ieri la rassegna "Pagine di Legalità" curata dal Comune di Siena, e Teatri di Siena in collaborazione con Movimento Agende Rosse. Ospiti della serata, moderata da Giorgio Bongiovanni, direttore di ANTIMAFIADuemila, l’autore Ranucci e Fabio Repici, legale di molti familiari di vittime di mafia. Presenti anche il referente delle Agende Rosse Giuseppe Galasso e Massimo Borghi, coordinatore di Avviso Pubblico.
Un evento che ha catturato l’attenzione dell’intero pubblico, in sala come a casa (la presentazione è stata trasmessa via streaming) per la dinamicità degli interventi e per l’importanza degli argomenti trattati. A partire dallo spunto offerto dal libro che affronta la storia di Luigi Ilardo, boss di Cosa nostra che decide di collaborare con lo Stato come infiltrato indicando, nel 1995, il covo di Bernardo Provenzano a Mezzojuso. Un fatto che è stato oggetto di processi e che si inserisce in un contesto che, più di recente, è stato sviluppato nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
Gli ospiti hanno così commentato la controversa, per non dire assurda, sentenza della Cassazione che lo scorso anno ha assolto gli imputati istituzionali “per non aver commesso il fatto”. E poi ancora è stato tracciato un filo, rosso o nero che sia, che intreccia i misteri d’Italia con le stragi degli anni ’90 e che mostra sullo sfondo l’esistenza di mandanti e concorrenti esterni.
Ampio spazio è stato dato anche all’attualissimo tema della libertà di stampa, in questo momento imbavagliata dal governo Meloni. Ed è proprio da qui che Bongiovanni ha dato inizio alla serata, ricordando la “mordacchia” messa a Giordano Bruno, il “filosofo più grande della storia del nostro Paese”, durante la processione che lo conduceva a Campo dei Fiori dove poi venne bruciato vivo il 17 febbraio 1600.
“Una mordacchia” che serviva a impedirgli di poter parlare, e quindi denunciare. Un po’ come - questo il senso dell’introduzione di Bongiovanni - avviene oggi in Italia, 424 anni dopo. “Mi rendo conto che la libertà di pensiero viene attentata, ma in un modo diverso. La ‘mordacchia’ la vogliono mettere in altre forme, mentre vogliono bruciare il grande valore che rappresenta la libertà di espressione: il libero pensiero”, ha commentato il giornalista lasciando parola a Ranucci. “Il rischio principale sta avvenendo a livello di libertà di informazione sulle inchieste giudiziarie”, ha dichiarato il conduttore di Report. “Le riforme della giustizia prevedono che tu non puoi parlare degli arresti, delle persone che sono interrogate. Senza considerare che non puoi parlare nemmeno dei reati. Quindi, non saprai neanche chi potenzialmente è stato autore di un fatto”, ha denunciato.
Una certa “mordacchia”, venne simbolicamente messa anche a Luigi Ilardo, protagonista del libro di Ranucci, nel momento in cui fu messo a tacere da Cosa nostra a colpi di pistola il 10 maggio 1996, pochi giorni prima di ufficializzare la sua collaborazione con la giustizia, cioè pochi giorni prima dal rendersi ufficialmente disponibile a parlare con tutte quelle procure interessate al suo dichiarato. “La mole di informazioni che Ilardo ha consegnato ad un uomo dei Carabinieri, il colonnello Riccio, avrebbe potuto fare di Ilardo, se solo avesse fatto in tempo, il secondo collaboratore di giustizia più importante della storia del nostro Paese, dopo Tommaso Buscetta”, ha sottolineato Ranucci.
“Tra il ‘93 e il ‘95, Ilardo ha raccontato le fasi della trattativa, in diretta. Riesce a fornire informazioni fondamentali: nomi e cognomi dei responsabili di Cosa Nostra e dei vari referenti politici. Racconta per la prima volta che dietro le stragi non c’è solo la mano di Cosa Nostra, ma anche quella della massoneria, dei servizi segreti deviati e della destra eversiva. Corpi diversi - ha spiegato -che nel momento del bisogno si uniscono per produrre dei risultati, anche quando vedono che il loro sistema è a rischio”. Non solo. “Ilardo - ha ricordato Ranucci - ha fornito anche i nomi. Tra questi, anche quello di ‘faccia da mostro’, il poliziotto identificato con il nome di Giovanni Aiello, presente sui luoghi delle stragi. Addirittura, Ilardo porta i Carabinieri del Ros fino al covo di Bernardo Provenzano, che però non sarà arrestato per la presenza eccessiva di pecore e di pastori. E’ dopo il mancato arresto di Provenzano, che il colonnello Riccio intuisce che c’è qualcosa che non va”.
“Le ultime fasi di questa narrazione, che raccontano la trattativa Stato-mafia e le stragi, appunto attraverso la vita di Luigi Ilardo, si svolgono all’interno della Caserma del Ros, luogo dove Ilardo incontra il colonnello Mario Mori, protagonista della trattativa Stato-mafia, prima come imputato e poi assolto”. Durante quell’incontro Ilardo - ha detto Ranucci - accusò Mori: "'Voi sapete che dietro le stragi non c’è solo Cosa Nostra, ma anche lo Stato’. Poi, l’incontro di Ilardo con tre magistrati: Giovanni Tinebra, all’epoca deputato a indagare sui mandanti esterni delle stragi, Gian Carlo Caselli, all’epoca procuratore capo a Palermo, infine il magistrato Teresa Principato, che ha condotto le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro”.
In quel momento, Ilardo, “che non si fida di Tinebra”, inizia a dare delle informazioni. “Si rivolge a Caselli e inizia a raccontare, a dare delle informazioni e a ripetere quelle cose già dette al colonnello Riccio, fino a quando fu proprio Tinebra a fermarsi per stoppare la testimonianza di Ilardo. In quel momento - ha ribadito Ranucci - avviene qualcosa di anomalo: i magistrati non mettono a verbale le dichiarazioni di Ilardo. Da quel momento in poi, il colonnello Riccio intuisce che Ilardo sta rischiando seriamente la sua vita”. Luigi Ilardo morirà “sotto la sua abitazione”, poco tempo dopo, e con “il risultato che non riuscirà mai a collaborare ufficialmente con la giustizia: un danno enorme per le indagini di quegli anni”.
Dopo Ranucci, la parola è passata a Fabio Repici che ha risposto così a una domanda di Bongiovanni sull’esistenza, o meno, di un filo rosso che lega alcuni delitti, le stragi al patto tra lo Stato e la mafia. Anche perché il libro, “Il patto”, racconta come l’omicidio Ilardo rientrasse proprio in quel dialogo sotterraneo tra mafia e pezzi di Stato.
Secondo Repici, “esistono dei legami nelle vicende dei gravi delitti avvenuti nel nostro Paese. Per spiegarlo, basta richiamare la sentenza del processo ‘Borsellino quater’, che riguarda la strage di via d’Amelio: uno dei delitti più clamorosi della nostra storia repubblicana. Attraverso quella sentenza è stato descritto, in modo plastico, un depistaggio di Stato compiuto da personaggi importantissimi per perseguire interessi che non erano di Cosa nostra, ma di sfere del potere. Il depistaggio, realizzato con le false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e messe in bocca dal Viminale, era servito ad occultare la verità e a nascondere la responsabilità dei concorrenti esterni a Cosa nostra nella strage di via d’Amelio”. Per la prima volta, ha proseguito Repici, “è stato messo nero su bianco quello che in molti già sospettavano: quei depistaggi servivano ad occultare la responsabilità di personaggi del potere nella realizzazione dei delitti che ognuno di noi immagina che siano stati commessi dai criminali professionisti. Questo vale sia per le stragi di mafia che per le stragi che rientrano nella cosiddetta strategia della tensione. In ogni occasione, i depistaggi sono stati commessi da uomini dello Stato”.Sempre sull’argomento, secondo l’avvocato, “il patto e le stragi producono la seconda Repubblica, dove i veri continuatori del potere sono stati gli apparati. Gli stessi soggetti che prima erano nella Polizia, nei Carabinieri, oppure nei servizi segreti, continuarono a detenere il potere senza più la resistenza di un potere politico forte. Negli anni ‘70 erano i politici a dare ordini ai servizi segreti. Dal ‘94 in poi sono stati i servizi segreti a dare gli ordini ai politici”.
Intanto, ha osservato Repici, “c’è stata una corsa al riduzionismo, come dimostra qualunque vicenda giudiziaria si affronti. Oggi - ha proseguito - si arriva a non comprendere l'enormità di certe cose che sono avvenute nel nostro Paese, che attualmente sono rappresentate dalla corsa alla santificazione di un personaggio come il generale Mario Mori. Santificato con il timbro di una sentenza della Cassazione che lo vede assolto per il processo trattativa Stato-mafia, con una stravagante motivazione secondo cui i giudici del merito di quel processo avevano avuto un approccio storiografico alla valutazione degli elementi di prova”. La Cassazione, infatti, ha assolto per non aver commesso il fatto, Mori e i carabinieri Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, oltre che l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, per il reato di minaccia a corpo politico dello Stato. Una sentenza sulla quale tutti i relatori di ieri dissentono pienamente.
“Io non so, in italiano, cosa intendesse dire il relatore di quella sentenza perché la strage di via d’Amelio è un fatto che rientra nella storia di questo Paese. Pensate alla strage di piazza Fontana, alla strage della stazione di Bologna, come si fa a ricostruire quei fatti fuori dalla storia”.
Secondo Repici la sentenza dei giudici di Cassazione “è il negazionismo che si è fatto dottrina”. “In realtà, serve per annullare i fatti per come si sono realizzati, per cui il generale Mori diventa un martire delle persecuzioni giudiziarie, mentre dimentichiamo il percorso che ha seguito la carriera del generale Mori”.
L’incontro si è concluso con le parole di Massimo Borghi, coordinatore di Avviso Pubblico, che ha sottolineato l’importanza della partecipazione della società civile nelle rivendicazioni di verità e giustizia su determinate vicende scabrose, nonché l’importanza dell’impegno del cittadino nella lotta per l’eradicazione delle mafie dai territori. “Noi svolgiamo un lavoro nelle istituzioni e con le istituzioni e facciamo antimafia sociale”, ha affermato. “La Toscana non è immune da queste cose, lo sappiamo tutti. Abbiamo i report che arrivano semestralmente, ma non reagiamo. Nella nostra ridente Toscana da tempo le mafie, non solo italiane, stanno agendo in maniera tranquilla”. Quindi ha sottolineato la necessità di fare “resistenza nei territori”. La stessa esigenza è stata manifestata da Giuseppe Galasso.
“Il cittadino cosa può fare?”, si è chiesto il referente del Movimento Agende Rosse. “Io penso che per il comune cittadino che spesso ritiene di essere inerme di fronte a certe situazioni, e deve semplicemente incrociare le dita aspettando che le istituzioni diano le risposte che si aspetta, in realtà può fare tanto. E lo può fare partecipando a quelli che sono i percorsi dell’antimafia sociale. Esistono tante associazioni che si occupano di questi temi. L’invito è uscire dal nostro torpore”, ha affermato. “Cerchiamo di prendere consapevolezza di quelle che sono anche le nostre forze, soprattutto se unite ad altri. E cerchiamo di reagire e di condividere un percorso in questa direzione”. Fonte: antimafiaduemila.com