Sebastiano Ardita: ”Quando lo Stato non è presente è la mafia a decidere nelle carceri”
“La mafia entra nel carcere quando lo Stato non è presente”. A dirlo è Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Catania, durante la presentazione del suo libro: “Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere” (ed. Solferino). L’evento si è tenuto ieri a Manduria all’interno della rassegna voluta dall’Amministrazione comunale “Legalità e Giustizia tra Scuola, Cittadinanza e Comunità”, giunta alla sua seconda edizione.
Sebastiano Ardita, entrato in magistratura all'età di 25 anni, ha iniziato come sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania, divenendo poi componente della Direzione distrettuale antimafia, ove si è occupato di criminalità organizzata di tipo mafioso, di inchieste per reati contro la pubblica amministrazione e di infiltrazioni mafiose nei pubblici appalti e forniture. Come consulente della Commissione parlamentare antimafia della XIII Legislatura ha redatto il documento relativo all'indagine sulla mafia a Catania. È stato direttore generale dell'ufficio detenuti, responsabile dell'attuazione del regime 41bis. Durante l’iniziativa il magistrato, ex membro togato del Csm, ha illustrato lo stato dell’arte delle carceri italiane, sottolineando le criticità del sistema detentivo di oggi e la penetrazione delle mafie al suo interno.
“Il carcere è un luogo nel quale si riproduce un pezzo di società e le differenze sociali che esistono all’esterno vengono quantificate all’interno del carcere”, ha esordito il pm.
“Dentro il carcere tutte le volte che gli agenti penitenziari escono dalla porta - e non sono presenti nel controllo quotidiano dei detenuti - la legge dello Stato fa un passo indietro e viene fuori un’altra legge, quella della mafia”, ha affermato Ardita. “E quando lo Stato non è presente è lei che decide le questioni. Quando è la mafia che decide la vita dentro il carcere tutto salta. Invece più è presente lo Stato meno tempo ha la mafia per far valere il proprio ordinamento”. Quindi Ardita ha ricordato la sua esperienza al Dap, dove approdò all’eta di soli 34 anni. Al tempo, “una delle cose da fare in prima battuta è stata quella di controllare le condizioni dei nuovi detenuti, dei cosiddetti ‘nuovi giunti’. Noi ne abbiamo fatto una categoria di persone, perché il nuovo giunto non è un detenuto qualunque ma un soggetto che per la prima volta conosce l’esperienza del carcere, che è un luogo traumatico, e per questo si chiedeva a costoro come stavano, che problemi ed esigenze avessero. Questa era la nostra idea di gestione. Ma di tutti questi sforzi fatti devo dire che non è rimasto pressoché nulla”, ha affermato Ardita. “Perché da qualche anno lo Stato ha fatto un passo indietro. Ha deciso che nella vita dei detenuti dovesse esserci più spazio per le relazioni tra di loro e meno la sua presenza”.
Questa scelta, ha spiegato, “è stata fatta da chi ha pensato che fosse meglio così ma io dico che questa è stata una scelta sbagliata, gravemente lesiva delle persone recluse, e ha finito per favorire le gerarchie criminali”, ha detto il magistrato catanese. Questa scelta “aveva finito per sottomettere i nuovi giunti a una terribile e schiacciante gerarchia che è quella delle capacità di invasione che la mafia ha degli spazi liberi delle persone. Lo Stato ha fatto un passo indietro e la mafia ha fatto due passi avanti e non sarà facile purtroppo cambiare questo ordine di cose”.
Durante la presentazione ha parlato di quello che definisce “un mondo dalle porte girevoli”. Ovvero quegli uomini che, dopo un breve periodo di detenzione, uscendo dal carcere rischiano di rinforzare le fila dell'organizzazione mafiosa veicolando inoltre gli ordini impartiti dai boss in regime di 41 bis. Questi ultimi infatti, fra le mura del carcere, non possono avere contatti con soggetti riconducibili alla mafia, ma possono “socializzare” con detenuti comuni.
Secondo il procuratore aggiunto di Catania, come ha spiegato nel libro, bisogna occuparsi dei criminali più deboli per toglierli dal controllo della criminalità organizzata, bisogna fornire il giusto supporto ai detenuti comuni, perché questo mette in crisi il loro orizzonte criminale basato sul rifiuto delle regole dello Stato. Occorre garantire una detenzione dignitosa, una vita carceraria pacifica, far coltivare la speranza di un domani migliore. E' necessario che lo Stato offra un adeguato supporto alle famiglie prima che lo facciano le organizzazioni mafiose. Fonte: Karim El Sadi - antimafiaduemila.com