IL VIDEO – Borsellino e Repici all’Antimafia: “Su via d’Amelio non rimettere in gioco elementi depistanti. Ci fu saldatura tra mafia ed eversione nera”
di Giuseppe Pipitone - Una saldatura tra Cosa nostra ed esponenti dell’eversione nera dietro alla strategia stragista. Una convergenza di interessi emersa dopo anni di depistaggi, indagini mancate e sentenze spesso contradditorie. Ed è per questo che per continuare a cercare la verità bisogna “evitare di rimettere in gioco elementi depistanti per chi vuole muovere alla ricerca della verità”. È seguendo questa linea che Salvatore Borsellino e l’avvocato Fabio Repici hanno cominciato la loro audizione davanti alla commissione Antimafia. Dopo aver audito Lucia Borsellino e suo marito Fabio Trizzino, Palazzo San Macuto ha cominciato ad ascoltare anche l’altra parte della famiglia del giudice ucciso nella strage di via d’Amelio. Un’audizione necessaria visto che, come è ormai noto, da tempo i familiari del magistrato assassinato il 19 luglio 1992 hanno posizioni molto diverse sulle causali coperte di via D’Amelio. Nella sua lunga relazione Trizzino, che come avvocato rappresenta i tre figli di Borsellino, ha indicato il rapporto del Ros su Mafia e appalti come l’unico vero movente della strage. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, però, i buchi neri sul dossier dei carabinieri sono stati ampiamente chiariti in passato. E in ogni caso Mafia e appalti non basta per giustificare l’accelerazione del piano di morte per Borsellino. Come non basta per rispondere a molte delle domande rimaste inevase sul periodo delle stragi.
Le parole di Salvatore Borsellino – È anche per questo motivo se Salvatore Borsellino ha spiegato alla commissione di avere idee diverse rispetto ai suoi nipoti. “Se da un lato ai figli di Paolo mi lega il terribile dolore per questa morte annunciata e l’insopprimibile esigenza di verità su una strage nella quale è stata stroncata la vita di loro padre e di mio fratello, da essi mi divide una posizione processuale che si è venuta a differenziare nel corso degli anni, arrivando purtroppo, con mio grande dolore, a influire anche sui rapporti personali“, ha detto il fratello del magistrato ucciso in via d’Amelio. “Devo dire, da parte mia, che ho ascoltato con sconcerto le dichiarazioni fatte in questa sede nei confronti di due magistrati. O meglio un magistrato e un ex magistrato, oggi senatore. Mi riferisco a Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato, ai quali mi sento di manifestare in questa sede la mia stima e la mia gratitudine per avere ricercato con tutte le loro forze quella verità e quella giustizia per le quali continuo a combattere in nome di quell’agenda rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta”, ha specificato Borsellino, che ha parlato per circa un’ora, collegato da remoto con Palazzo San Macuto.
“Tinebra e Giammanco dovevano rispondere da vivi” – Borsellino ha poi spiegato di essere rimasto “perplesso per il diverso peso dato ad alcune parole di Paolo e ad altre parole e circostanze riferite da sua moglie Agnese”. Il riferimento è al passaggio in cui l’avvocato Trizzino interpreta molto liberamente le frasi messe a verbale da Agnese Piraino Leto, moglie di Paolo Borsellino, al quale il giudice aveva confidato di avere “visto la mafia in diretta” perché gli avevano detto che il generale dei carabinieri Antonio Subranni era “punciuto“, cioè affiliato a Cosa nostra. Secondo Trizzino “per Borsellino il mafioso era chi glielo aveva detto”, quindi non Subranni. Interpretazione abbastanza contorta, che non convince Salvatore Borsellino. Che poi ha aggiunto: “I magistrati verso i quali bisognerebbe puntare il dito sono Giovanni Tinebra, che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di aver avvallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi, e Pietro Giammanco, che ha ostacolato in ogni modo sia Falcone che Paolo, fino a concedere a quest’ultimo la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo che avrebbe dovuto ucciderlo era già pronta davanti al portone di via D’Amelio. Questi magistrati avrebbero dovuto rispondere del loro operato finché erano in vita”. Il riferimento è per l’ex procuratore di Caltanissetta, morto nel 2017, e per l’ex procuratore capo di Palermo, deceduto l’anno dopo: entrambi non sono mai finiti sotto inchiesta.
“Anni di depistaggi, mai indagato davvero sull’agenda rossa” – Fratello minore di Paolo Borsellino, Salvatore ha lasciato Palermo per andare a vivere a Milano alla fine degli anni ’60. Nel 2008 ha fondato le Agende rosse, un movimento creato per cercare la verità sulla strage di via d’Amelio. “Questi sono stati anni di depistaggi, mancate indagini, sentenze contraddittorie. Sono stati assicurati alla giustizia forse alcuni di quelli che materialmente hanno ucciso Paolo Borsellino ma ciò non è avvenuto per coloro che hanno agito nell’ombra volendo la sua morte, non sono stati messi in luce i motivi dell’accelerazione di questa strage che non sarebbe avvenuta solo 57 giorni dopo Capaci se fosse stata attuata solo dall’organizzazione mafiosa”, ha detto in apertura della sua audizione. “Sulla sparizione dell’agenda rossa non si è mai davvero indagato, non c’è mai stato un vero processo. Tranne quello in cui, in fase di udienza preliminare, quindi senza alcun dibattimento, è stato assolto il capitano Arcangioli, ripreso e fotografato mentre si allontana dalla macchina di Paolo ancora in fiamme, portando in mano la borsa di Paolo in cui era contenuta l’agenda. Ma a chi è stata consegnata quella borsa?”, ha detto Borsellino. Ricordando poi il lavoro di Angelo Garavaglia Fragetta, tra i fondatori delle Agende rosse, che ha messo insieme tutti i frame di via d’Amelio successivi alla strage, realizzando un filmato che mostra in diretta i movimenti della valigetta di Borsellino. Secondo il fratello del magistrato “è dall’agenda rossa, la scatola nera della strage di via d’Amelio, che si dovrebbe ripartire per arrivare alla verità. Ripartire dal furto di quell’agenda compiuto, ne sono certo, da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello: non sto parlando della mafia ma di pezzi deviati dello Stato. È da questo che si dovrebbe ripartire, non dal dossier mafia e appalti, che può essere considerato una concausa, ma non è sicuramente la prima causa dell’accelerazione di una strage che a quel punto non poteva più essere rimandata”. Secondo Borsellino in “pochi, troppo pochi, vogliono verità e giustizia in questo Paese“.
Il discorso di Casa Professa – Una chiave da seguire per cercare la verità è ragionare sulla parole pronunciate da Paolo Borsellino alla biblioteca comunale di Palermo il 25 giugno del 1992. A proposito della strage di Capaci, quella sera il giudice disse: “Questi elementi che io porto dentro di me debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita”. L’autorità giudiziaria competente a indagare su Capaci era la procura di Caltanissetta guidata da Tinebra, che convocò Borsellino soltanto nella settimana successiva al 19 luglio, dunque un mese dopo quell’intervento pubblico, quando ormai la strage di via d’Amelio era stata eseguita. A partecipare all’incontro di Casa Professa, quella sera del 25 giugno ’92, c’era anche un giovane studente di Giurisprudenza: Fabio Repici, oggi legale di Salvatore Borsellino.
La saldatura tra neri e mafia – “In questo scenario nel quale ci muoviamo io ritengo che sia importante evitare di introdurre elementi che creino confusione. Bisogna evitare di rimettere in gioco elementi depistanti per chi vuole muovere alla ricerca della verità”, ha detto l’avvocato, che ha rappresentato i familiari delle vittime di alcuni dei più rilevanti delitti politico-mafiosi degli ultimi decenni. Sulla base dell’esperienza che si è fatto lavorando sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano, del poliziotto Nino Agostino e del magistrato Bruno Caccia, Repici ha tracciato un filo nero che si dipana lungo una direttrice fatta di stragi e omicidi eccellenti: dal fallito attentato dell’Addaura del 1989 a quello dello Stadio Olimpico. Ha fatto il nome di Paolo Bellini, ex estremista nero condannato in primo grado per la strage di Bologna e indagato per quelle di Capaci, di Firenze, Roma e Milano, ma pure quelli di Luigi Savona e Giovanni Bastone, massoni legati alla famiglia mafiosa di Mazara del Vallo, che sulle strategia stragista ha avuto un ruolo per troppo tempo sottovalutato. “È pacificamente accertato che le strade dello stragismo esecutivamente commesso da Cosa nostra e iniziato con l’omicidio di Salvo Lima, passando per la stragi di Capaci e via D’Amelio si saldarono con l’intervento di soggetti di tutta altra provenienza come quella della eversione neofascista“, ha fatto notare Repici. E a questo proposito ha ricordato che il “nero” Bellini “è stato protagonista attivo delle mosse di Cosa Nostra nel 1992 grazie alla relazione con personaggi importantissimi mafiosi come Giovanni Brusca, Nino Gioè e Gioacchino La Barbera“. L’ex di Avanguardia nazionale, ha proseguito il legale, “ha avuto una presenza quasi fissa in Sicilia, dal 1991 e sappiamo con certezza che il suggerimento a Cosa nostra di colpire il patrimonio architettonico nelle stragi del 1993 è provenuto proprio da Bellini”.
Tra negazionismo e revisionismo – Secondo l’avvocato, dunque, bisogna unire i puntini: occorre indagare su quel filo nero che collega stragi e omicidi eccellenti. “Sarebbe un errore considerare la strage di via D’Amelio un delitto fuori dalla storia: quel delitto è parte di un percorso che risale almeno al 1989, nella sua fase minima che si può individuare e che si completa nel ’94 quanto alla esecuzione di delitti di progetti esecutivi di stragi propriamente intese, ma che vede ulteriori effetti anche nei decenni successivi, almeno fino alla cattura di Provenzano e perfino in epoca recente con tentativi di ricatti da una cella al 41bis per conto di Giuseppe Graviano“. E anche se via D’Amelio “va vista nei suoi dettagli di unicità”, non si può ignorare che “il quadro è più ampio altrimenti la verità non la si trova”. A questo proposito Repici ha aggiunto: “Da un pò di tempo si avverte la pratica di un fenomeno, a mezza via tra negazionismo e revisionismo. Riscrivere la storia in un’ottica panmafiosa per cui certi delitti sono esclusivamente frutto di azioni poste da uomini cosa nostra”. Ma quasi tutte le stragi della recente storia italiana – da Portella delle Ginestra a piazza Fontana – ci hanno insegnato che spesso gli esecutori fanno da service dell’orrore: sparano su ordinazione di qualcun altro.
Il depistaggio, Contrada e le rivelazioni di Mutolo – Su via d’Amelio Repici ci ha tenuto a sottolineare che “l’epifania del depistaggio la nostra nazione la deve non a un uomo o una donna dello Stato ma un uomo di Cosa nostra che si chiama Gaspare Spatuzza, il disvelamento di ciò che era successo sulle losche manovre che avevano condotto all’accettazione del ruolo di falso collaboratore da parte di Vincenzo Scarantino è avvenuta grazie a Spatuzza che iniziò a collaborare nel giugno del 2008″. Un depistaggio che matura subito dopo la strage quando Tinebra chiede la collaborazione di Bruno Contrada, uomo dei servizi che non avrebbe potuto partecipare all’indagine. Per due motivi: intanto perché era vietato dalla legge che l’intelligence svolgesse compiti di Polizia giudiziaria. E poi, soprattutto, perché il pentito Gaspare Mutolo aveva raccontato a Borsellino che era a conoscenza di soggetti istituzionali con un ruolo di contiguità con Cosa nostra. Mutolo fece due nomi: Bruno Contrada e Domenico Signorino, cioè quello che all’epoca era il numero tre del Sisde e un magistrato che era stato pm del Maxiprocesso. “Le indagini sulla morte di Paolo Borsellino sono state, almeno in parte, affidate a uno che sarebbe stato indagato da Paolo Borsellino”, ha sintetizzato Repici. Ricordando come Tinebra fosse a conoscenza delle rivelazioni fatte da Mutolo a Borsellino. “Quella circostanza fu riferita il 20 luglio del 1992 a Tinebra ma questo non riuscì a impedire che il procuratore affidasse le indagini a Contrada, fuori dalla legge”. Dopo la strage, tra l’altro, quell’incarico a Contrada avrà avuto probabilmente un effetto intimidatorio: dovranno passare, infatti, più di tre mesi prima che Mutolo si convinca a ripetere quelle accuse nei confronti del superpoliziotto. Che verrà arrestato nel dicembre dello stesso anno, quando ormai aveva indirizzato le indagini di Arnaldo La Barbera e della Polizia sul Vincenzo Scarantino, il balordo della Guadagna al centro del depistaggio su via d’Amelio. Repici ripartirà da qui, quando proseguirà la sua audizione. La data della nuova convocazione verrà decisa dalla commissione di Chiara Colosimo nei prossimi giorni. FONTE: ilfattoquotidiano.it
L’Audizione di Salvatore Borsellino alla Commissione parlamentare antimafia.
«Ho chiesto di essere audito da questa Commissione, insieme con il mio avvocato, difensore di parte civile, Fabio Repici, che è anche avvocato dei sette figli della mia defunta sorella Adele, nipoti di Paolo Borsellino, per fare sentire anche la mia voce di fratello di Paolo dopo quella dei figli di mio fratello.
Poiché sono l’ultimo ancora in vita della famiglia di origine di Paolo Borsellino lo faccio anche a nome delle mie sorelle, Adele e Rita, che non ci sono più, e soprattutto a nome di nostra madre, Maria Pia Lepanto che, come tante altre mamme a cui troppo presto sono stati stappati i figli, ha dovuto chiudere gli occhi per sempre senza poter vedere néVerità né Giustizia sull’assassinio di suo figlio.
Sono stati, questi anni, anni di depistaggi, di mancate indagini, di sentenze spesso contraddittorie, in cui, se sono stati assicurati alla Giustizia forse alcuni di quelli che materialmente hanno ucciso Paolo Borsellino, la stessa cosa non è avvenuta per quelli che hanno agito nell’ombra, che hanno voluto la sua morte.
Non sono stati neanche messi alla luce i veri motivi dell’accelerazione di questa strage che, se fosse stata messa in atto soltanto dall’organizzazione mafiosa, non sarebbe avvenuta soltanto 57 giorni dopo l’altra strage, quella di Capaci, che alla strage di Via D’Amelio io credo sia indissolubilmente legata.
Paolo ha cominciato a morire il 23 maggio del 1992, ma se da un lato ai figli di Paolo mi lega il terribile dolore per questa morte annunciata e l’insopprimibile esigenza di veritàsu una strage nella quale è stata stroncata la vita del loro padre e di mio fratello, da essi mi divide una posizione processuale che si è venuta a differenziare nel corso di tanti processi arrivando purtroppo, e con mio grande dolore, ad influire anche sui rapporti personali.
Devo dire, da parte mia, che ho ascoltato con sconcerto le dichiarazioni fatte in questa sede nei confronti di due magistrati, o meglio di un magistrato e di un ex magistrato, oggi senatore della Repubblica, mi riferisco a Nino Di Matteoe Roberto Scarpinato, ai quali mi sento invece di dovere manifestare pubblicamente, e in questa stessa sede, la mia stima e la mia gratitudine per avere in questi lunghi anni, ricercato con tutte le loro forze quella Verità e quella Giustizia per le quali continuo a combattere, in nome di quella Agenda Rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta.
Sono ben altri i magistrati verso i quali bisogna puntare il dito, quel Giovanni Tinebra che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di avere avallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi e quel Pietro Giammanco che Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, ha ostacolato in ogni modo fino a concedergli la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo che avrebbe dovuto ucciderlo era già pronta davanti al portone di Via D’Amelio.
Questo, devo dire, è stato evidenziato anche nella deposizione di mia nipote Lucia ma questi magistrati, e mi pesa chiamarli così, avrebbero dovuto essere chiamati a rispondere del loro operato finché erano in vita e invece, per quanto mi risulta, è stato solo il mio avvocato, Fabio Repici, a chiamare in aula, inserendolo nella sua lista di testimoni nel corso del Borsellino Quater, Pietro Giammanco che poi in realtà non si presentò adducendo dei motivi di salute.
Eppure su Pietro Giammanco il dito lo avevo già puntato, ma rimasi inascoltato, in un pezzo che scrissi in una domenica del Settembre 2008, e che fu pubblicato anche sulla rivista Micromega nel 2010.
Si intitolava “Lampi nel buio” e in esso immaginavo Via D’Amelio come un set teatrale completamente immerso nelle tenebre dove però ogni tanto uno squarcio di luce dal cielo illuminava le scene di quella tragedia.
Questo è il pezzo in cui, quasi quindici anni fa, e quando era ancora in vita, parlavo di Pietro Giammanco.
Ecco un altro lampo che squarcia le tenebre.
Sono le 7 del mattino del 19 luglio, in via Cilea, e a casa del Giudice che è in piedi dalle 5, arriva una telefonata del suo capo, Pietro Giammanco.
Non gli ha mai telefonato a quell’ora, e di domenica, non lo ha avvisato di un rapporto del Ros in cui si rivelava che era arrivato a Palermo un carico di esplosivo per l’attentato al Giudice che ha potuto conoscere la circostanza per caso, all’aeroporto, incontrando il ministro Scotti, e che sui motivi di questa omissione con il suo capo, ha avuto un violento alterco.
Non gli ha ancora concesso, da quando è rientrato da Marsala prendendo le funzioni di Procuratore Aggiunto a Palermo, la delega per condurre le indagini in corso sulle cosche palermitane e, in conseguenza, la possibilità di interrogare senza la sua espressa autorizzazione, pentiti chiave come Gaspare Mutolo e Leonardo Messina.
Ora, il 19 luglio, quando la macchina per l’attentato è già posteggiata davanti al numero 19 di via D’Amelio, gli telefona per dirgli che gli concede quella delega e gli dice una frase che, oggi, suona in maniera sinistra “così si chiude la partita”.
La moglie del Giudice, Agnese, lo sente urlare al telefono e dire “no, la partita comincia adesso” e lo stesso giudice, qualche tempo prima, aveva confidato al maresciallo Canale, che lo affiancava nelle indagini, che “in estate avrebbe fatto arrestare Giammanco perché dicesse cosa sapeva sull’omicidio Lima”.
Dal recarsi ai funerali del quale lo stesso Giammanco venne dissuaso solo all’ultimo momento da un altro procuratore.
Perplesso mi ha lasciato anche, nella ricostruzione dell’avvocato dei figli di Paolo, il diverso peso dato ad alcune parole di Paolo e ad altre parole e circostanzeriferite da sua moglie, Agnese Piraino.
Sono state messe quasi sullo stesso piano parole per me evidentemente ironiche come “Quei due non me la raccontano giusta” con parole pesanti, terribili, come quelle riferite ad avere appreso che il Generale Subranni era “punciuto” o sulla raccomandazione di chiudere le finestre perché qualcuno, da una postazione situata nel Castello Utveggio poteva spiarlo.
Proprio da quel Castello Utveggio dal quale forse è stata condotta la regìa per l’operazione, concertata insieme con l’attuazione della strage, del furto dell’Agenda Rossa.
Forse è proprio da questa Agenda Rossa, la scatola nera della strage di Via D’Amelio, che si dovrebbe ripartire per arrivare davvero alla Verità, dal furto di quell’Agenda compiuto, ne sono certo, proprio da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello, e non sto parlando della mafia, ma di pezzi deviati dello Stato perché è certo che non siano state mani di mafiosi a portare a compimento quel furto
È proprio da questo che si dovrebbe ripartire e non da un dossier mafia-appalti che, se pure può essere considerato una concausa, non è sicuramente la vera causa dell’improvvisa accelerazione di una strage che, a quel punto, non poteva più essere rimandata.
Occorreva eliminare, e in fretta, chi rappresentava un ostacolo insormontabile per un disegno criminoso, teso, con l’ausilio anche dell’organizzazione mafiosa e dell’eversione nera, a cambiare gli equilibri di questo nostro disgraziato paese che da queste stragi, che io ho chiamato e continuerò sempre a chiamare stragi di Stato, è stato sempre segnato.
La chiave di questa accelerazione va cercata semmai nelle parole pronunciate da Paolo alla Biblioteca Comunale di Palermo il 25 di giugno, nel suo ultimo discorso pubblico.
Paolo chiede di essere sentito dalla Procura di Caltanissetta per dire quello che sa e che ha scoperto sulla strage di Capaci, e da quella strage sono ormai passati più di trenta giorni senza che Paolo sia ancora stato chiamato.
Paolo dice: “Questi elementi che porto dentro di me debbo per prima cosa assembrarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell‘evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone… per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi, se è il caso, ne parlerò in pubblico”
Dopo queste parole la convocazione di Paolo a Caltanissetta non può essere più rimandata, c’è il rischio che Paolo riveli in pubblico quello che i giudici non vogliono ascoltare, Paolo viene convocato a Caltanissetta per la settimana successiva al 19 luglio ma intanto parte il conto alla rovescia per l’attuazione della strage, per la sua eliminazione.
Paolo non arriverà mai a testimoniare in quella procura, in cui a collaborare alle indagini, verrà poi irritualmente chiamato quel Bruno Contrada sul quale Paolo sta raccogliendo le rivelazioni di Mutolo, verrà chiamato soltanto quando la sua morte è stata ormai decisa, quando il suo tempo è ormai arrivato.
È qui che bisogna cercare i veri motivi dell’improvvisa accelerazione e non in un incontro alla caserma Carini che Paolo non annota neppure nella sua agenda grigiae di cui anche i ROS hanno parlato soltanto 5 anni dopo e facendo affermazioni che soltanto Paolo, che però ormai non c’è più, potrebbe confermare o smentire.
E a fermare le stragi non poteva esser certo la quanto meno “improvvida” iniziativa di chi è andato a bussare a certe porte chiedendo ad un tramite di Salvatore Riina del perché di questo “muro contro muro”.
È servita anzi a rafforzare l’idea che la strategia stragista pagava se era in grado di mettere in ginocchio lo Stato, di spingerlo a farsi avanti, a scendere a patti, è servita solo a scatenare altre stragi, a causare altre vittime innocenti, questa volta sul “Continente” e ad attentare, per aumentare il livello del ricatto, anche al patrimonio artistico dello Stato.
Ma sulla sparizione di quella Agenda Rossa non si è mai veramente indagato, non c’è stato mai un vero processo.
Tranne quello in cui, in fase addirittura di udienza preliminare, e quindi senza alcun dibattimento, è stato assolto dall’accusa di avere sottratto l’Agenda , quel Capitano Arcangioli che è stato ripreso, fotografato mentre si allontana dalla macchina di Paolo ancora in fiamme portando in mano la borsa di Paolo in cui sicuramente l’Agenda era contenuta.
Ma a chi è stata consegnata quella borsa prima di essere rimessa sul sedile della macchina che continuava a bruciare?
Nel corso di questi anni abbiamo studiato a fondo ogni singolo fotogramma, ogni ripresa che ci è stata possibile ottenere girata in Via D’Amelio nell’immediatezza della strage.
Abbiamo ascoltato e confrontato le diverse testimonianze, spesso discordanti, costellate di “non ricordo” di chi è venuto in qualche maniera in contatto con la borsa di Paolo che conteneva l’Agenda.
Abbiamo individuato i fotografi e gli operatori, richiesti i rollini, alcuni ci sono stati dati, altri, specie quelli in possesso dei grandi organi di informazione, ci sono stati inspiegabilmente negati.
Siamo andati, ogni 19 luglio, a rilevare le ombre del sole all’ora della strage, sui palazzi per mettere le foto e le riprese nella giusta sequenza.
Abbiamo ricostruito i movimenti di chi è entrato in contatto con la borsa, abbiamo individuato personaggipresenti che non sono nemmeno mai stati sentiti come testimoni, abbiamo studiato le relazioni di servizio spesso soltanto tardivamente prodotte.
Abbiamo individuato a chi, presente in Via D’Amelio subito dopo la strage, il Cap. Arcangioli può avere portato la borsa dopo averla prelevata dalla macchina di Paolo e questo ufficiiale, oggi Generale, Borghini, non è stato mai sentito nemmeno come testimone.
Il risultato di tutto questo lavoro è stato inserito in un documento audiovisivo e questo è stato presentato in udienza alla Corte, nel corso del Borsellino Quater il giorno dell’arringa finale del mio avvocato, per dare il nostro contributo alle indagini che altri, con ben altri mezzi, avrebbero dovuto portare avanti.
Il risultato di tutto questo è stato che i PM, presenti in aula all’inizio dell’udienza, appena iniziata la proiezione del documento, si sono alzati e sono andati via senza poi più tornare in aula nel corso dell’intera giornata.
Ed alla raccomandazione della Corte, contenuta nella sentenza, di approfondire le indagini sulla sparizione dell’Agenda Rossa non è stato dato fino ad oggi alcun seguito.
E voglio ricordare che in quel processo è stata soltanto la mia parte civile, insieme con il difensore dell’imputato, a chiedere l’assoluzione di quel Vincenzo Scarantino, anche lui, anche se in forma diversa, vittima della strage di Via D’Amelio, processato per calunnie a cui era stato costretto con torture fisiche e psicologiche in carceri dello Stato e da funzionari dello Stato, troppo tardivamente processati.
Così come sono stato soltanto io, in tutta la mia famiglia, a rifiutarmi di firmare, nei primi due processi la richiesta di un impossibile “risarcimento” comminato nei confronti di chi, a causa di quel depistaggio, era stato condannato per un delitto che non aveva commesso.
E voglio precisare che in quei due processi, viziati da questo, che è stato definito, nel Borsellino Quater il più grande depistaggio della storia, il mio avvocato non era quello di oggi, Fabio Repici, che in quel dibattimento questo depistaggio non avrebbe sicuramente sostenuto o avallato.
Il Borsellino Quater era stata una svolta, mi aveva fatto sperare di vedere, finalmente, almeno un barlume di Verità, un miraggio di Giustizia, ma poi sono arrivate una serie di sentenze contraddittorie, per l’ultima delle quali aspettiamo ancora la motivazione, che hanno fatto quasi del tutto svanire la mia speranza.
Nella prima, quella d’appello, si assolvono gli imputati dello Stato perché “il fatto non costituisce reato”, nell’altra quella in cassazione, si assolvono tutti “per non avere commesso il fatto”.
Ma “Il fatto” c’è, la strage c’è stata, Paolo e i suoi ragazzi sono stati uccisi e dopo quella strage altre ne sono state compiute ed altre vittime innocenti hanno perso la vita.
Quello che manca, e ormai sono quasi sicuro di non vedere nel corso di quel residuo di vita che mi resta, sono una Verità e una Giustizia che forse pochi, troppo pochi, in questo paese, vogliono davvero.»