Sebastiano Ardita: ”Contro la mafia la repressione non basta, serve anche costruzione”
E’ uno spaccato di vita siciliana il libro “Io sono Rita. Rita Atria: la settima Vittima di Via d’Amelio” (ed. Marotta e Cafiero), scritto da Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto. Presentato nella giornata di ieri presso la sede di “Città Insieme” di Catania, il libro-inchiesta descrive una realtà cruda, spesso violenta e quasi sempre dominata da una cultura sociale e familiare impregnata di mentalità mafiosa, che prende nuovamente vita attraverso la storia di Rita Atria: una ragazza appena 17enne, che ha deciso di mettersi contro la mafia di Partanna affidandosi e confidandosi con il giudice Paolo Borsellino. Morta suicida una settimana dopo la strage di via d’Amelio, dove persero la vita insieme al giudice Borsellino, anche i cinque agenti di scortaAgostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina, la giovanissima testimone di giustizia ha smascherato numerosi delitti di mafia, e le sue dichiarazioni hanno colpito persino Matteo Messina Denaro e suo padre Francesco. Ciò che accompagna il dramma di questa vicenda è la sofferenza che la giovane Rita ha provato durante i suoi ultimi giorni di vita, quando ha avvertito l’abbandono dello Stato, al punto tale da ricorrere al gesto estremo del suicidio il 26 luglio del ‘92, a Roma, passando per questo alla storia come la “settima vittima” di via d’Amelio. “Rita nasce da una famiglia mafiosa, il cui padre, Vito Atria, non è una persona importante, ma si sente tale. Il periodo storico è segnato dalla povertà, dalla miseria e dall’abitudine di un popolo agropastorale, quello di Partanna, abituato a chiedere ‘assistenza’ al mafioso del paese, per ritrovare, dietro pagamento, le pecore o il trattore che il mafioso stesso ha fatto sparire”. Con queste parole, Graziella Proto, direttrice de “Le Siciliane-Casablanca” e coautrice del libro “Io sono Rita”, attraverso uno scorcio storico che descrive la Partanna degli anni ‘70 e ‘80, ha introdotto la presentazione del libro-inchiesta. In quegli anni, la famiglia Atria è nota per la sua caratura criminale, “nonostante il suo esercito fatto di ragazzini”.
Durante quello stesso periodo “la miseria era immensa”, così come la mancanza di lavoro; anche per questo motivo la vendita della droga ha trovato fin da subito un facile appiglio. All’interno di questo contesto, “così ostile”, è cresciuta Rita Atria: “Una giovane donna, furba, che vuole capire tutto e, per questo motivo, fa delle domande trabocchetto a sua madre.” - prosegue - “Così, un bel giorno, la figlia del boss Vito Atria, invece di andare a scuola, scende dal pullman, si reca in caserma e dice: ‘Io sono Rita Atria, conosco delle cose e le voglio raccontare’”.
Oltre la repressione c’è la cultura
La presentazione del libro “Io sono Rita” ha visto anche la presenza del procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita. “Rita Atria è stata uccisa dalla solitudine, dalla mancanza di sostegno morale e - ha spiegato Ardita - dalla mancanza di esperienza nella gestione delle collaborazioni durante le testimonianze con la giustizia”. Si tratta di una storia drammatica, con al centro “una ragazza che ha fatto una scelta radicale e, per questo motivo, viene messa fortemente alla prova dal punto di vista psicologico”. Questo è un aspetto fondamentale che introduce alle dinamiche della società moderna, la quale, attraverso il suo impegno civile, “dovrebbe anche coltivare la comprensione attraverso l’analisi di chi vive all’interno del contesto mafioso, uscendo da uno schema che vede la lotta alla mafia come una lotta tra buoni e cattivi”. Il mafioso è un individuo che “parla un’altra lingua” e legge la realtà “con un suo codice, diverso dal nostro”.
Nel corso degli anni ha appreso una cultura e un’etica sbagliata, che promuove scelte criminali, “che dal nostro punto di vista sono tali, ma per l’altra persona, il mafioso, non lo sono”. Occorre interrompere la “superiorità etica” che si avverte nei confronti di chi delinque e andare oltre. “Senza guardare troppo ai meccanismi di ‘giustificazionismo’, la criminalità va repressa - ha ribadito - ma accanto alla repressione deve viaggiare un atteggiamento di costruzione, di ricostruzione, ma anche di comprensione di queste dinamiche senza provare un atteggiamento di superiorità”. Infine, Ardita ha spiegato che molte delle persone che sono costrette a vivere tra povertà e difficoltà, “vivono all’interno di una cultura mafiosa, ma senza delinquere; a queste persone deve essere data una risposta. La repressione contro la mafia è una forma di difesa che viene applicata dallo Stato, ma non serve a nulla se non viene accompagnata dalla capacità di spostarsi nei quartieri, anche attraverso attività che sono mosse dalla cultura, dalla passione e da obiettivi istituzionali”.