Sebastiano Ardita: grave la situazione carceraria in Italia, servono urgenti provvedimenti
L’ex Direttore dell’Ufficio Centrale Detenuti e trattamento Dap analizza i Casi La Motta e Cospito.
È cronaca di questi giorni la vicenda del duplice omicidio eseguito da Salvatore 'Turi' La Motta a Riposto, prima di suicidarsi. La Motta era un ergastolano in semilibertà ritenuto vicino al clan Santapaola, di giorno lavorava e di sera tornava in carcere ad Augusta. Sabato scorso doveva essere l’ultimo giorno di permesso premio di una settimana e invece il detenuto ha deciso di impugnare una calibro 38 e fare una mattanza nel lungomare di Riposto per poi togliersi la vita. La Motta venne arrestato nel 1997 per l’omicidio di Nardo Campo, un delitto compiuto nel pieno centro di Giarre. A farlo arrestare fu l’allora pubblico ministero Sebastiano Ardita che in questi giorni ha commentato quanto accaduto a Riposto rispondendo a La Stampa e La Sicilia. Il fatto che La Motta, in quanto ergastolano per omicidio di mafia, godesse di un permesso premio “sarebbe vietato in base ad una legge approvata dopo la strage di Capaci”, ha spiegato Ardita al giornale siciliano. “Ma una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, recepita dalla Corte Costituzionale ha stabilito che ogni ‘automatismo’ di legge nell’escludere un beneficio è incostituzionale. E perciò in ogni caso il giudice ha il dovere di verificare in concreto se il detenuto è meritevole del permesso. Si dovrebbe trattare però di casi abbastanza rari, rispetto ai quali lo stesso detenuto deve poter provare che non ha più nulla a che spartire con la mafia - ha aggiunto -. L’ergastolo per i reati diversi dalla mafia di fatto non esiste più. Chi uccide anche più persone per una lite o per una vendetta privata e poi in carcere tiene buona condotta, anche con l’ergastolo dopo 26 anni circa può ottenere la liberazione condizionale e, prima ancora, può avere permessi premio e misure alternative alla detenzione”. Quanto avvenuto a Riposto dimostra che La Motta era un soggetto ancora pericoloso, probabilmente disposto ad attendere anni per portare a compimento un progetto di morte. Sul punto Ardita ha sottolineato che spetta alla magistratura di sorveglianza valutare la pericolosità di un detenuto. “La magistratura di sorveglianza cui spettano queste decisioni è spesso chiamata a decidere su atti formali che danno conto di buona condotta e partecipazione all'opera di rieducazione”, ha detto Ardita, già consigliere togato al Csm. Il punto è che il nostro sistema penale “non prevede reali verifiche mirate a valutare il comportamento del detenuto in semilibertà”. “Non si può valutare su basi scientifiche, oggettive, come se si trattasse di fare un’analisi del sangue - ha aggiunto il magistrato da poco rientrato alla Procura di Catania -. Concorrono molti fattori, rispetto ai quali il rapporto con l’associazione mafiosa è solo uno degli sbarramenti, ma certamente quello principale. Il punto è che anche se si è interrotto il rapporto con la mafia un soggetto può essere ancora pericoloso individualmente. E per capire cosa passa nella testa di un ergastolano, se siano cambiati i suoi interessi e il suo carattere, occorre un’osservazione attenta e non formalistica, che parte proprio dalla sua condotta all’interno del carcere. E temo che gli elementi per questa valutazione non fossero completi. Perché mi rifiuto di pensare che non siano stati ben valutati”. Ardita, che per anni ha diretto l’Ufficio Centrale Detenuti e Trattamento del Dap, sottolinea come la magistratura di sorveglianza si trovi “in mezzo a due fuochi”: “Da un lato il rischio di sbagliare nel concedere un’opportunità a chi potrebbe commettere altri delitti; dall’altro l’accusa di essere insensibile sui cambiamenti e di non rispettare il principio di rieducazione. È certo che con il venir meno degli ‘automatismi’, le responsabilità e i rischi per i magistrati di sorveglianza si sono accresciuti in modo impressionante”. La situazione non fa che aggravarsi con la vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da oltre cento giorni per abolire il 41bis. “Queste vicende generano confusione e smarrimento nella pubblica opinione e spesso polemiche politiche, da cui derivano decisioni avventate – ha commentato Ardita -. L'errore più grave sarebbe di nuocere alla funzione rieducativa della pena negando opportunità a quei detenuti che vorrebbero realmente cambiare vita. Ma anche a voler accettare l'idea che un mafioso possa rompere i legami con l'associazione, occorre comprendere che si tratta di rarissime eccezioni, mentre noi oggi così rischiamo di fatto una liberazione di massa dei boss arrestati negli Anni 90. Perché avviene che gli istituti pensati per gli emarginati vengano applicati ai mafiosi, restituendo l'immagine di uno stato forte coi deboli e incapace di contrastare la grande criminalità. Il rischio è di tornare al clima degli Anni 90”.
In conclusione, il magistrato ha voluto ribadire le gravi condizioni in cui riversano le carceri italiane e, soprattutto, la negligenza da parte del Legislatore nel voler attuare norme favorevoli a migliorare tali condizioni. “L’istituzione penitenziaria - cui è demandato il compito di affrontare e risolvere i problemi principali - è da anni abbandonata a sé stessa, chiamata a svolgere compiti impossibili e non agevolata da regole interne imposte da un pericoloso buonismo, coltivato nei salotti buoni e sostenuto con riforme velleitarie. Il trattamento e la rieducazione sono cose serie, impongono sacrificio per i detenuti che vogliono cambiare e presuppongono che in carcere comandi lo Stato”, ha ribadito Ardita, sottolineando l’importanza di attuare urgenti provvedimenti. “Inizierei tornando a credere nel trattamento penitenziario e nella rieducazione, che devono prendere il posto del lassismo, dell’autogestione e dell’indisciplina presentati come una conquista dei diritti dei detenuti. Per fare ciò punterei sugli operatori penitenziari, dando loro più sicurezza in sé stessi e forza nella loro azione. Il carcere civile, che mette insieme rieducazione e sicurezza, si può realizzare solo grazie a loro. È ingiusto che se il sistema tracolla - per anni di trascuratezza nella gestione politico-amministrativa - la colpa si scarichi su coloro che vengono abbandonati da quello Stato che hanno servito con generosità”, ha concluso.