E’ MORTO IL PENTITO ANGELO SIINO. IN UN LIBRO RACCONTO’ DI QUANDO “L’AVVOCATO CAPOMAFIA DI BARCELLONA ORDINO’ L’UCCISIONE DI GIOVANNI MINOLI A FILICUDI…”
Negli anni Ottanta lo chiamavano il "ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra" perché era l'ambasciatore dei Corleonesi nel palazzo della Regione e in tutti gli altri dove si spartivano gli appalti. L'uomo del 3 per cento. Angelo Siino, collaboratore di giustizia dal 1997, è morto il 31 luglio nella località segreta dove viveva, la famiglia ha voluto tenere riservata la notizia, che è trapelata solo oggi. "Bronson", lo chiamavano anche così per la somoglianza con l'atttore, aveva fatto la sua ultima apparizione in aula al processo "Trattativa Stato-mafia": quel giorno aveva parlato di un progetto di attentato nei confronti dell'ex presidente della Regione Siciliana Rino Nicolosi: "Voleva rompere sugli appalti - disse - me lo rivelò Giovanni Brusca".
Il suo ruolo ed i suoi rapporti con l'alta finanza ed i politici era stato delineato da tre pentiti di primo piano di Cosa nostra: Balduccio Di Maggio, Leonardo Messina e Giovanni Drago. Ma a raccontare fatti inediti e di grossa portata su Siino era stato il boss ormai pentito Giovanni Brusca che faceva da tramite tra Totò Riina ed il "ministro" di Cosa nostra. Qualche anno fa Siino decise di raccontare tutti i segreti di Cosa nostra in un libro, scritto con il suo legale storico Alfredo Galasso. Nel libro ("Vita di un uomo di mondo") ha raccontato personaggi come Salvo Lima e Michele Sindona, senatori della Repubblica come Giulio Andreotti e Marcello Dell'Utri. Ci sono i ricordi dei viaggi fra i lussi di Parigi e quelli nei gironi del carcere dell'Asinara, delle battute di caccia con le "mangiate" e le "parlate" nelle masserie dei boss, ma anche i retroscena di alcune vicende che hanno fatto tremare un'isola e anche l'Italia intera.
"Sono e mi chiamo Angelo Siino, nato a San Giuseppe Jato il 22 marzo del 1944. Ho ripetuto queste generalità cento volte dinanzi ai Tribunali e alle Corti di tutt'Italia, fino a perderne il senso reale, il senso della mia vita". E' questo l'incipit del suo libro.
Che sembra un romanzo ma quello che c'è scritto è tutto vero: nomi, luoghi, fatti, incontri e intrighi. Identificarlo come "il ministro dei Lavori Pubblici" di Cosa Nostra sarebbe anche troppo semplicistico e grossolano, perché Angelo Siino è un personaggio così complesso e così profondamente radicato in una Sicilia del passato recente, che confinarlo "soltanto" come il collegamento fra i vertici di un'associazione criminale che spara e i vertici di un'associazione criminale politica non fa scoprire sino in fondo chi è questo siciliano cresciuto nelle assolate campagne di San Giuseppe Jato. Il libro che ha scritto non a caso ha come titolo Vita di un uomo di mondo (Ponte delle Grazie, pagg 173, euro 14,00), ventotto capitoli densi di episodi raccolti con l'aiuto e la passione del suo avvocato Alfredo Galasso, che l'autore chiama sempre rispettosamente "il professore".
All’interno dell’autobiografia viene riportato un episodio inedito che Siino racconta (e che pubblichiamo di seguito) e riguarda un omicidio che per fortuna non c'è mai stato, quello di Gianni Minoli. Il giornalista è in vacanza a Filicudi, dove arrivano anche Siino e sua moglie. Dopo poche ore, viene avvicinato da un uomo che gli porta un messaggio dal capomafia di Barcellona Pozzo di Gotto detto "l'Avvocato". Un annuncio di morte per Minoli: "Parla assai". Siino se ne va via subito da Filicudi, il giorno dopo telefona ai boss più potenti della zona che gli dicono che "l'Avvocato", da solo, non può prendere una decisione così importante: "Questo ricordo torna spesso nella mia mente”.
Fra le gite di lavoro e di piacere nel messinese, dov’ero pure riconosciuto come ministro dei Lavori Pubblici del governo di Cosa Nostra, ne ricordo una, che mi sembra tuttora curiosa, per l’ambiente e per i personaggi incrociati, anzi il personaggio, che era Giovanni Minoli. La storia, quasi un aneddoto se si considera l’esito, ebbe inizio in una caldissima e ventosa mattina di agosto, non so dire adesso di quale anno, ma credo che fosse l’ultimo degli anni Ottanta, dei quali, scontento, attendevo la fine. Mi ero concesso una settimana di riposo, soprattutto di lontananza dai tormentati affari e personaggi dei cento appalti di pertinenza del mio Ministero. L’ultimo si era concluso a Barcellona Pozzo di Gotto con un’aggiudicazione a un’impresa vicina sia ai Santapaola che ai Farinella, i miei amici di Gangi. Ne vantai gran merito con entrambe le famiglie, ma in realtà fu una delle pochissime occasioni in cui la gara fu vinta da chi lo meritava per la qualità dell’offerta e per il ribasso proposto. Me ne vantai, spiegando che mi ero dato da fare come al solito per conoscere i ribassi dei concorrenti; non era vero, però bisognava farlo credere altrimenti rischiava di indebolirsi la struttura ferrea che si era organizzata sul presupposto che un appalto poteva essere conquistato da un’impresa mafiosa o gradita dai mafiosi solo se sponsorizzata da Cosa nostra. A Barcellona, mi era venuta voglia di una vacanza nelle Eolie, di cui conoscevo solo Lipari e Vulcano, visitate in motoscafo con il mio amico Totò Fauci. Anche mia moglie fu subito d’accordo e ci muovemmo in auto, la mia nuova BMW, lungo la strada per Messina, non ancora completata come autostrada e quindi più gradevole da percorrere tra il mare da una parte e le colline di eucalipti e pini dall’altra. Lungo il viaggio Elina mi disse che avrebbe voluto visitare e trascorrere qualche giorno a Filicudi, di cui le avevano parlato bene alcune sue amiche del bel mondo palermitano. Giò mi fece pensare che era probabilmente un posto da vip e anche per questo non mi dispiaceva affatto andarci. A Milazzo non fu difficile imbarcarsi, dopo avere consegnato la BMW ala garagista di una piccola autorimessa vicina al molo. A Filicudi, mi avevano avvertito, era preferibile e piacevole muoversi a piedi lungo i numerosi e intrecciati sentieri dell’isola. Il mare era splendido, una distesa blu appena increspata. Il vento della cosiddetta Conca d’Oro si era fermato sui Nebrodi, osservai a un vicino che sembrava avermi riconosciuto, sul ponte del traghetto. Un po' più in la’, appoggiato al parapetto di ferro arrugginito, un passeggero mi guardava intensamente e non ne capivo il motivo, anche se mi pareva un viso conosciuto. Un’anziana signora, che si presento’ semplicemente come Maria, ci aspettava sulla soglia della vecchia casa di pietra che Elina aveva preso in affitto su indicazione di un’amica. Dunque, le feci notare, era certa che saremmo andati a Filicudi prima che decidessimo insieme. “Non è la prima volta” commentò. La casa era poveramente arredata, ma pulita e fresca. Prima di allontanarsi, la signora Maria ci porse le chiavi esterne e interne e ci raccomandò di stare attenti perché sua madre sosteneva che Filicudi era l’isola del diavolo. Rimanemmo incuriositi, con un sorriso divertito. Il diavolo, almeno per me, si presentò il giorno dopo, quando era previsto il solito periplo costiero. Eravamo radunati sul molo in attesa del barcone, ma era sopraggiunto il vento. aspettammo un po' e poi il giro venne rinviato al giorno successivo. Fra la gente chiassosa affollatasi, con una leggera gomitata mia moglie mi indicò Giovanni Minoli, che chiacchierava allegramente con una giovane donna in prendisole. Lui aveva calzoncini corti, una maglietta e scarpe leggere di tela. Non so spiegarmi perché, eppure questa immagine mi è rimasta impressa intatta nel ricordo. Seguivo con interesse le puntate di Mixer, soprattutto mi intrigavano i faccia a faccia, il modo semplice e diretto con cui Minoli affrontava questioni complicate, come la mafia. Così, mentre ragionavamo della trasmissione che si diceva non piacesse granché ai vertici politici e in particolare a Craxi, allora il capo del partito di riferimento del giornalista, si accostò nella stradella di ritorno l’uomo che mi aveva fissato a lungo sul traghetto. Mi invitò, chiamandomi per nome in modo brusco a fermarmi un momento. Più sorpreso che preoccupato, dissi a Elina di mettersi da canto e di aspettarmi per qualche minuto. Disse di chiamarsi Tano, di avermi intravisto in una riunione di lavoro a Barcellona e di essere stato incaricato di recarmi un messaggio, anzi un avviso da parte dell’Avvocato. L’avvocato era il capomafia di Barcellona o, si supponeva, addirittura della provincia di Messina; ed era avvocato davvero. Se ne parlava raramente negli incontri di vertice di Cosa Nostra, quasi fosse uno sconosciuto, ma io sapevo che era accreditato dalla famiglia Santapaola e da Benedetto personalmente, da cui avevo ricevuto le credenziali dell’Avvocato, dal cognome insolito e in ogni caso non necessario per la sua identificazione. Infatti, Tano si limitò a citare l’autore del messaggio, appunto, come l’Avvocato, sicuro che avrei capito di chi si trattasse. Lo capii subito, e lo capii pure dalle poche parole e dai gesti di accompagnamento che era un annuncio di morte per Giovanni Minoli. Sbalordito e incredulo, chiesi perché. La risposta del sedicente Tano fu che non lo sapeva con precisione. “Ccà sta di casa e parra assai”, così cercò di illustrare la faccenda senza illustrare particolare interesse per la questione e senza chiarirmi quale grave conseguenza potesse derivare per la locale consorteria mafiosa il rapporto tra l’abitare del giornalista nell’isola e il suo parlare, probabilmente, in televisione. Al messaggero premeva soltanto di avere adempiuto all’incarico. Dovevo essere messo a conoscenza di un simile proposito omicida per andar via al più presto da Filicudi e non tornarci mai più. Questo lo avevo compreso da me, senza bisogno di una spiegazione esplicita che pure mi venne accennata. Lo sbalordimento si trasformò in una sorta di paura rabbiosa. Ho sempre cercato di dissuadere qualsiasi proposito omicida, per di più Minoli mi era simpatico e non riuscivo proprio a intendere il senso della sua eliminazione. Gridai a Tano che mi sembrava una pazzia, un’iniziativa senza alcuna giustificazione e con il rischio di effetti sconvolgenti per gli stessi interessi di Cosa nostra, che stava appena uscendo da una sanguinosa guerra di mafia, da una serie di omicidi cosiddetti eccellenti e aveva bisogno di silenzio. A dire il vero, ciò che avevo in mente era l’immagine di un giovane uomo spensierato che si godeva una giornata di mare e di sole, in una pausa dal suo lavoro e dalla sua notorietà. “Riferirò”. Una sola parola e un cenno di saluto con il capo segnarono il congedo di quest’uomo rimasto misterioso come tutto il resto della storia. Raccontai subito cosa mi era stato rivelato a Elina, che del resto aveva ascoltato il colloquio ed era sconvolta quanto me. Mi consigliò di ripartire subito, mentre io ero perplesso e più ci riflettevo e più la vicenda mi appariva assurda. Alla fine della discussione, tornando verso la vecchia casa di maria, ci fermammo a prendere un panino al bar, sul lungomare, l’unico bar allora esistente. Conclusi il mio ragionamento convinto che finché fossi rimasto a Filicudi non sarebbe successo nulla di quanto minacciato. L’indomani, però, cambiai idea e decisi che era preferibile andar via e provare a capire rapidamente da dove e come era nata questa maledetta idea. Il mare si era calmato e il traghetto del pomeriggio avrebbe fatto regolare servizio. Salutammo la signora Maria che non fece trapelare alcuna contrarietà per la partenza prematura, soddisfatta del pagamento integrale del fitto pattuito. Mi dispiacque lasciare anzitempo Filicudi, ma il diavolo (dell’isola) ci aveva messo la coda e né io né mia moglie eravamo tranquilli. Sbarcato a Milazzo e ripresa l’auto, anche qui pagando l’intera settimana seguito dal brontolio di Elina, notoriamente ‘rifarda’, come usa dirsi nella mia patria di persona restia a sborsare soldi e risorse. Mi ritrovai a casa in meno di due ore guidando ad alta velocità e riscoprendo un’abilità di pilota che temevo scomparsa. Il motivo della fretta era che dal mio studio palermitano desideravo telefonare a Cataldo Farinella e a uno dei Santapaola, non rammento chi, che si occupavano entrambi di tenere i rapporti con le famiglie mafiose del messinese e avevano consistenti interessi economici nella zona. Riuscii a comunicare solo con Cataldo, il quale mi rassicurò che si sarebbe occupato lui di accertare di cosa si fosse trattato, anch’egli incredulo. Mi richiamò la mattina seguente e mi informò con tono scherzoso che non c’era nulla di serio che l’Avvocato ben sapeva di non essere in grado di decidere e fare alcunché di simile. Cercai di avere qualche dettaglio ma ne ricavai qualche risatina come se si discorresse di una burla. Anche ora, dopo tanti anni, ripensandoci, non credo affatto che fosse una burla, come non credo comunque di essere stato io l’artefice della messa in salvo del giornalista, che ha continuato a frequentare Filicudi con la stessa allegria di quella lontana mattina. Non so perché questo episodio ritorna spesso nella mia memoria e non ricordo in che occasione lo narrai ai magistrati. Forse è soltanto il rimpianto di una vacanza rovinata.