
Trentacinque anni dall’omicidio e le scuse a Umberto Mormile
Di Fabio Repici - Proprio mentre correggo queste righe, scattano i trentacinque anni dalla sua uccisione. Mancava qualche minuto alle 9 della mattina dell'11 aprile 1990 e Umberto Mormile, come di consueto, stava andando in macchina al lavoro al carcere di Opera, dove svolgeva le funzioni di educatore penitenziario. Una moto lo affiancò a sinistra e il passeggero gli esplose numerosi colpi di pistola a breve distanza, non lasciandogli scampo.
Ora che è trascorso quasi un mese dalla sentenza della Corte di assise di appello di Milano che ha assolto Salvatore Pace, ora che sono trascorsi oltre giorni dalla morte dell'ex sostituto commissario Carmine Gallo (socio ed esponente di rilievo dell'agenzia Equalize), oggi che i suoi familiari lo ricordano nel trentacinquesimo anniversario dell'omicidio, ecco, ora mi sembra che sia proprio il caso di dire, con molta pacatezza e con pari nettezza, che la giustizia deve chiedere scusa alla memoria di Umberto Mormile.
E poiché temo che in giro sia difficile trovare qualcuno che abbia non dico l'onestà intellettuale ma almeno l'umiltà per farlo, ecco, mi sembra il caso che sia io a cominciare a chiedere scusa alla memoria di Umberto Mormile. Perché almeno qualche colpa la ho certamente, giacché pensavo che il tempo trascorso costituisse un certificato di garanzia perché il procedimento sull'omicidio Mormile avviato l'1 agosto 2018 - quando accompagnai il fratello di Umberto, Stefano Mormile, a consegnare una nuova denuncia perché si facesse definitiva chiarezza su quel delitto e venisse rimosso dalla tomba in cui riposano i resti di Umberto il fango che per decenni era stato prodotto dalla giustizia lombarda, dal giorno stesso della sua morte - filasse linearmente senza intoppi fino alla fine. E quindi è anche il caso di dire tutto su questa vicenda. Il ruolo professionale, infatti, certe volte impone a un avvocato di assumere una esposizione pubblica. Come ha attestato la Corte europea dei diritti dell'uomo (a partire dal caso dell'avvocato Morice contro la Francia), diventa onere del difensore quello di informare la società sulle disfunzioni della giustizia, e non solo della giustizia, a fronte della posizione dei familiari di una vittima.
Quella denuncia dell'1 agosto 2018 era stata resa possibile dal prezioso lavoro fatto, anche sull'omicidio Mormile, dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria e personalmente dal pm Giuseppe Lombardo nel procedimento noto con la denominazione 'Ndrangheta Stragista.
Interrogati lontano dalla giustizia milanese alcuni pentiti lombardi, come Vittorio Foschini ma non solo lui, avevano alfine confessato che a richiedere a Domenico e Antonio Papalia l'uccisione dell'educatore penitenziario fossero stati esponenti dei servizi segreti che ai Papalia erano legati da parecchi lustri di trame occulte e che avevano pure dato le istruzioni per rivendicare quel delitto a nome della Falange Armata, entità anfibia ideata da apparati istituzionali e sposata dalle mafie calabresi e siciliane, la quale aveva rivendicato quasi tutti i crimini del quadriennio stragista e trattativista che aveva partorito la cosiddetta seconda repubblica.
Erano così state riscontrate le rivelazioni fatte da Antonino Cuzzola, uno dei due killer di Umberto Mormile, fin dal primo momento in cui si era presentato davanti ai pm di Milano, ai quali aveva spiegato perché e per come era stato ideato il depistaggio ai danni della memoria di Umberto Mormile. Era un affare di Stato, nato nel corso di incontri abusivi in carcere fra il detenuto Domenico Papalia(un capomafia assassino che il 41 bis l'ha visto col lanternino) e operatori dei servizi segreti.
Una volta depositata quella denuncia, le conseguenti indagini avevano prodotto risultati considerevoli. Il primo riguardava proprio lo snodo centrale: l'ingresso abusivo di esponenti dei servizi segreti al carcere di Opera, dove dal 1988 era detenuto Domenico Papalia e dal 1987 prestava servizio Umberto Mormile. Le dichiarazioni di Antonino Cuzzola erano molto più che attendibili e avevano ricevuto il riscontro, sugli incontri in carcere fra Papalia e uomini dei servizi, da altri collaboratori di giustizia. Ma stavolta c'era la prova diretta.
Tutto era partito dall'audizione di Stefano Mormile, il quale riferì ai pubblici ministeri le confidenze che lui e Armida Miserere (al tempo direttrice del carcere di Lodi, compagna di vita di Umberto Mormile, morta ad aprile 2003) avevano raccolto poco dopo l'uccisione di Umberto. Tra l'altro, Stefano Mormile raccontò «che Armida all'epoca mi confidò che era noto nell'ambiente carcerario che tale Putzolo era persona che collaborava con i Servizi Segreti».
I pubblici ministeri allora sentirono Osvaldo Putzolu, comandante della polizia penitenziaria al carcere di Opera al tempo dell'omicidio Mormile. Pur con atteggiamento di palese imbarazzo, quando i pubblici ministeri gli chiesero se avesse mai avuto rapporti coi servizi segreti, Putzolu dovette ammettere: «Quando ero in servizio ad Opera ricordo che in alcune occasioni veniva un agente del Sisde per aver informazioni sull'ambiente e sulla popolazione carceraria. Era un ex tenente dei carabinieri, tale De Lucia, originario di Voghera. A domanda preciso che tale persona l'ho conosciuta al carcere di Opera in occasioni di queste visite di cui ho detto. Per la precisione me l'aveva presentato il direttore del carcere di Opera, dott. Fabozzi. Quando questa persona si presentava in carcere contattava il direttore il quale poi lo indirizzava da me affinché gli fornissi le informazioni di cui aveva bisogno».
Divenne una slavina. Sentito il direttore Fabozzi, anch'egli dovette confessare: «circa con cadenza mensile c'era un funzionario dei servizi segreti, mi pare del Sisde, a nome Andrea De Lucia, che veniva in carcere, nel mio ufficio, per aggiornare il registro dei terroristi detenuti presenti … Oggetto delle sue richieste erano sempre i detenuti per reati di terrorismo, in relazione ai quali lo aggiornavo dei nuovi arrivi, dei colloqui che gli stessi facevano con i familiari e di eventuali permessi premio di cui beneficiavano … Alcune volte il comandante della Polizia Penitenziaria, tale Putzolu, ci raggiungeva nel mio ufficio oppure al bar ed in quelle occasioni si incontravano … Tale De Lucia lo conoscevo già dai tempi in cui ero direttore al carcere di Voghera (1983/84) e già in quegli anni si informava dei detenuti terroristi».
A quel punto toccò al funzionario del Sisde, Andrea De Lucia, e l'imbarazzo raggiunse le vette: «Il mio incarico principale all'interno del Sisde riguardava attività info-investigative in particolar modo in Lombardia e nord Italia. Mi occupavo anche, in modo marginale, di assumere delle informazioni in ambienti carcerari, in virtù di questi ho intrattenuto saltuari rapporti con alcuni direttori dei carceri della Lombardia, tra cui Fabozzi Aldo, Pagliara, Pagano Luigi e pochi altri di cui non ricordo il nome, visto il tempo trascorso … circa una volta al mese mi recavo presso il carcere di Opera dove intrattenevo delle relazioni in genere col Direttore … Durante questi incontri assumevo informazioni sui detenuti condannati per reati in materia di terrorismo e criminalità organizzata .. Se i miei ricordi non mi ingannano, [conobbi Fabozzi, nda] quando lui era Direttore del carcere di Voghera, successivamente lo stesso è stato nominato Direttore del carcere di Opera … Nel caso del carcere di Opera ho conosciuto Putzolu Osvaldo all'epoca Comandante».
Per capire il grado di attenzione operativa (o, secondo i gusti, il grado di sincerità nelle dichiarazioni) di quel funzionario del Sisde, De Lucia, alla domanda se avesse mai avuto notizie, anche dagli organi di informazione, dell'omicidio dell'educatore penitenziario Umberto Mormile, che lavorava al carcere di Opera proprio mentre lui ci entrava una volta al mese, rispose così: «A mia memoria no».
Il dato acquisito nelle indagini era clamoroso, per varie ragioni. Intanto perché al tempo il famigerato “protocollo Farfalla” (cioè l'accordo di collaborazione fra amministrazione penitenziaria e servizi segreti) non era ancora stato adottato e quindi quella collaborazione era, secondo la legge, abusiva. In secondo luogo, perché i pubblici ministeri manco provarono a cercare i registri attestanti gli ingressi di Andrea De Lucia al carcere di Opera, evidentemente ritenendo che non ne avrebbero trovato traccia. D'altro canto, occorrerebbe chiedersi se in relazione a quegli ingressi ripetutisi circa ogni mese per circa tre anni Andrea De Lucia abbia redatto mai una relazione o un appunto e che cosa, eventualmente, ci sia scritto in quella relazione o in quell'appunto, ove mai esistiti. Infine, perché, dopo l'affaire Cirillo (con esponenti del Sisde e poi del Sismi e della struttura segreta Anello che entrarono in carcere per incontrare Cutolo e intavolare una trattativa per il rilascio dell'assessore regionale campano Ciro Cirillo), prima dell'omicidio di Umberto Mormile solo in un altro caso si era accertato l'ingresso di un emissario di apparati nelle carceri italiane.
Era il 1986 ed erano gli ultimi giorni di vita di Michele Sindona, detenuto al carcere di Voghera diretto proprio da Aldo Fabozzi. Così ne ha scritto Stefania Limiti in “Doppio livello” (ed. Chiarelettere): «Nell'archivio del Sismi alla voce Carlo Rocchi c'è scritto, tra l'altro, che fu lui l'ultima persona a vedere vivo in carcere Michele Sindona, proprio qualche giorno prima che il bancarottiere di Patti morisse avvelenato. Strano: cosa ci faceva un agente Cia nella sala visite del carcere di massima sicurezza di Voghera? Nessuno poteva andare a trovare Michele Sindona. La visita ha qualcosa a che fare con la sua misteriosa fine?».
Carlo Rocchi, referente della Cia a Milano dagli anni Sessanta agli anni Novanta, era stato pure il destinatario dell'ultima disperata lettera di Sindona, inviata sempre dal carcere di Voghera, poco prima di morire avvelenato: «Capisco che i miei soliti malvagi avversari abbiano potuto consigliarLe di disinteressarsi di me e mi rendo conto che nella sua posizione Lei non può opporsi ai loro desideri. Però, se così fosse, la pregherei di dirmelo chiaramente».
La presenza del Sisde a Opera, dunque, era stata accertata (pur fra mille tentennamenti) con prova diretta. Era già un successo, a fronte delle bestialità che il negazionismo giornalistico-giudiziario è sempre pronto a sfornare, con encomiabile spudoratezza.
Il ministero della giustizia ne aveva mai avuta ufficiale notizia? E la magistratura di sorveglianza era informata della liaisonSisde-Dap? Di sicuro mai nessuno se ne era lamentato, né di quegli ingressi abusivi né della conoscenza o dell'ignoranza di quegli ingressi abusivi. Questione relegata (o delegata) al deep state.
Ma nelle indagini della Procura di Milano c'era stata un'altra evenienza clamorosa: due collaboratori di giustizia, Vittorio Foschini e Salvatore Pace, come del resto avevano già fatto a Reggio Calabria nel processo 'Ndrangheta Stragista, avevano confessato di aver partecipato a riunioni organizzative per l'omicidio Mormile, di aver fornito la propria disponibilità al reperimento di armi e mezzi e di aver supportato, quindi, la volontà di Antonio Papalia e Franco Coco Trovato (e quella di Domenico Papalia proveniente dal carcere) per la eliminazione dell'educatore penitenziario, testimone degli incontri abusivi fra Domenico Papalia ed esponenti dei servizi segreti.
Su questo punto, le dichiarazioni di Vittorio Foschini erano state inequivocabili: `«Mormile era venuto a conoscenza di questi rapporti che esistevano tra Domenico Papalia e uomini dei Servizi. Ricordo che Antonio Papalia ci disse che l'operatore penitenziario era venuto a conoscenza anche del colloquio che gli uomini dei Servizi avevano avuto in carcere con Domenico Papalia. Antonio Papalia, riferendosi al Mormile e ai rapporti tra i Papalia e i Servizi, usò questa espressione: “ha scoperto tutto”. Poi è stato ammazzato. Posso dire che il fatto che Mormile avesse scoperto di tali rapporti con i Servizi fu un'altra ragione che ne determinò la morte. Anzi, fu la ragione prevalente».
L'altra ragione fu chiarita da Foschini nello stesso interrogatorio del 15 febbraio 2019: «I Servizi Segreti avevano già detto tutto quello che dovevano dire, nel senso che erano già stati chiari sul punto: o si riusciva a risolvere il problema “legando” il Mormile a noi, anche attraverso il pagamento a suo favore di somme di denaro, o diversamente il problema andava risolto togliendolo di mezzo. Senz'altro posso dire che dopo che Domenico Papalia aveva dato l'ordine di eseguire l'omicidio, ci fu un altro incontro tra il fratello Antonio e due uomini dei Servizi Segreti e in tale occasione questi ultimi dissero ad Antonio di rivendicare l'omicidio con la sigla terroristica “falange armata”». Foschini aveva spiegato anche quali fossero i suoi timori, non le reazioni dei boss mafiosi calabresi, ma dei servizi segreti: «sebbene non ho e non abbia mai avuto paura di nessuno, se no non potevo fare il collaboratore, qualche timore nel coinvolgere i Servizi Segreti l'avevo».
Interrogato dalla Procura di Milano l'11 marzo 2019, Cuzzola mantenne rigorosa coerenza con quanto ostinatamente ripetuto a tutti i magistrati che lo avevano sentito sull'omicidio Mormile: «quandoAntonio Papalia, anche alla presenza di Coco Trovato, in un bar di Buccinasco mi chiese la disponibilità a guidare la moto per eseguire l'omicidio dell'operatore Mormile, mi disse anche le ragioni per cui avevano deciso di uccidere questa persona. In particolare mi disse che Mormile parlando con un altro detenuto all'epoca recluso a Opera, che si lamentava con lui per il fatto di non riuscire ad avere i permessi nonché del fatto che lo stesso Mormile non gli faceva le relazioni positive necessarie per ottenere i benefici penitenziari, aveva fatto presente a questo detenuto che lui non faceva i colloqui con i Servizi. Più precisamente questo detenuto aveva fatto presente al Mormile che addirittura gli ergastolani, come Domenico Papalia, riuscivano ad avere i permessi e invece lui no. A fronte di queste lamentele Mormile gli aveva replicato che Domenico Papalia otteneva i permessi grazie ai suoi rapporti e ai colloqui che aveva con i Servizi … questa è stata la prima ma non l'unica volta in cui Antonio Papalia mi parlò delle ragioni dell'omicidio. Successivamente, quando ho effettuato con Antonio Papalia i sopralluoghi in vista dell'esecuzione dell'omicidio, quest'ultimo mi ribadì che Mormile doveva essere ammazzato perché parlava troppo e perché era a conoscenza dei rapporti che il fratello Domenico aveva con i Servizi Segreti».
Avviene, poi, che anche il collaboratore di giustizia Salvatore Pace (uno che sulle relazioni fra le cosche e i servizi segreti ha sempre recitato la parte delle tre scimmiette: non vedo, non sento e non parlo), interrogato dalla Procura di Milano, alla presenza del suo difensore di fiducia e nel rispetto di tutte le garanzie difensive, confessò, come aveva già fatto a Reggio Calabria: «Con specifico riferimento all'omicidio Mormile nulla so della fase deliberativa, come ho già riferito in precedenti occasioni quel che ricordo è che poco prima dell'omicidio Coco Trovato e Antonio Papalia mi chiesero se potevo mettere loro a disposizione una moto per l'esecuzione dell'azione omicidiaria … A fronte della richiesta della moto io comunque mi resi disponibile incaricando uno dei miei uomini, e precisamente Cassaniello, di occuparsi della cosa. Non avendo gestito in prima persona questo aspetto, non sono in grado di riferire le modalità con cui venne consegnata la moto, se effettivamente venne poi utilizzata, né nessun altro dettaglio che riguarda l'esecuzione dell'omicidio … Quando mi fu chiesto di mettere a disposizione una moto, mi fu detto che serviva per l'omicidio di un educatore di Opera, senza ulteriori specificazioni. Non ricordo se già in quella prima occasione o comunque nei giorni successivi ma comunque coevi all'omicidio, in una delle tante occasioni in cui eravamo tutti assieme nel bar dove ci ritrovavamo, Antonio Papalia, anche alla presenza di altri, disse che l'omicidio dell'educatore era stato deciso in quanto quest'ultimo “si comportava male”. Non chiarì in alcun modo che cosa intendesse con tale affermazione, né specificò nei confronti di chi l'educatore si comportava male».
Parallelamente, il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo era pure riuscito a recuperare dalle sabbie mobili di qualche archivio un importantissimo interrogatorio del killer che aveva sparato a Umberto Mormile, Antonio Schettini, del 28 novembre 1996, sul quale mai nessuno aveva più chiesto chiarimenti al pentito, tanto meno quando Schettini, dal 1997, era stato il primo strumento con cui era stata ingiustamente infangata la memoria di Umberto Mormile, ucciso moralmente con le calunnie dopo essere stato ucciso a colpi di pistola. Eppure proprio Schettini alla fine del 1996 aveva detto l'indicibile, probabilmente sperando che qualche organo istituzionale, a partire dalla Procura di Milano, gliene chiedesse delucidazioni: «I proventi del 50% dei sequestri di persona dei gruppi calabresi confluiva verso apparati deviati dello Stato. La Falange Armata nasce con l'omicidio Mormile con la finalità di trovare un nuovo sfogo agli stessi apparati deviati».
Nonostante tutto questo, la Procura di Milano nel 2021 aveva chiesto l'archiviazione del procedimento nato dalla denuncia presentata da Stefano Mormile accompagnato da me l'1 agosto 2018: archiviazione contro ignoti, visto che nessuno era stato iscritto sul registro degli indagati.
Ci opponemmo a quella richiesta di archiviazione e la Gip di Milano Natalia Imarisio, con ordinanza del 3 marzo 2022, ordinò alla Procura di Milano di iscrivere sul registro degli indagati Salvatore Pace e Vittorio Foschini, proprio perché rispetto all'omicidio Mormile i due collaboratori di giustizia erano esplicitamente rei confessi.
Il 2 maggio 2022 (nel frattempo da due settimane si era insediato il nuovo Procuratore della Repubblica di Milano Marcello Viola) i pubblici ministeri emisero per Pace e Foschini l'avviso di conclusione delle indagini preliminari e il 5 luglio 2022 la richiesta di rinvio a giudizio.
Nel giudizio che si aprì, ebbi l'onore di assistere Daniela, Nunzia e Stefano Mormile, figlia e fratelli di Umberto Mormile, costituitisi quali parti civili.
Il 15 marzo 2024 la Gup di Milano Marta Pollicino emise sentenza di condanna di Pace e Foschini, ritenendoli responsabili dell'omicidio Mormile e concedendo a entrambi l'attenuante per la collaborazione con la giustizia, in ragione della confessione di entrambi. Il 10 giugno 2024 fu depositata la motivazione di quella sentenza e apprendemmo che era finalmente stata cacciata dalle aule di giustizia milanesi l'aria mefitica che aveva accompagnato i due processi che negli anni Novanta e Duemila avevano portato alle condanne di Antonio Schettini, Antonio Papalia, Franco Coco Trovato, Antonino Cuzzola e Domenico Papalia, oltre che alla condanna morale di Umberto Mormile. Sul punto la sentenza è stata oltremodo esplicita: «Ribadendo dunque la non necessarietà ai fini del decidere dell'accertamento relativo al movente omicidiario, stante la natura meramente sussidiaria di tale componente dell'”animus necandi”, si reputa, tuttavia, rilevante, a chiusura del presente provvedimento, darsi conto delle plurime e variegate ipotesi investigative che sono emerse su questo particolare profilo, compulsate dalle dichiarazioni dei vari collaboratori di giustizia – ed anche degli stessi imputati, nella specie di Vittorio Foschini – che in modo contraddittorio e non sempre lineare, va detto, si sono succedute e stratificate nel tempo, senza potersi addivenire, allo stato, ad una definizione, giudizialmente certa sul punto, ma che, sulla base delle emergenze in atti, anche documentali, appare potersi ricostruire in termini, se non certi, o meglio “processualmente certi”, quanto meno in termini assai diversi rispetto a quanto avvenuto in altre sedi giudiziarie».
In conclusione, gli innumerevoli elementi di prova acquisiti, secondo la sentenza, «inducono a ritenere che la morte di Umberto Mormile si possa (e forse si debba) oggi contestualizzare – o meglio ricontestualizzare – alla luce di un'altra “verità” … in un oscuro, ma verosimilmente ormai disvelato, intreccio di poteri e di precari equilibri tra forze, solo apparentemente antitetiche – in quella ben precisa fase storica in cui, solo una sinergica e coordinata lettura delle risultanze probatorie – di questo e di altri procedimento – consente di poter collocare il fatto omicidiario in oggetto».
Del resto, la teoria calunniosa che aveva tenuto banco a lungo presso la giustizia milanese, secondo cui Umberto Mormileera un corrotto a disposizione di Domenico Papalia, aveva oggettivi impacci, fondata com'era sulle dichiarazioni di Schettini (successive a quelle su servizi segreti e Falange Armata che non avevano ricevuto alcuna attenzione dalla magistratura e dalla polizia giudiziaria fino al processo 'Ndrangheta Stragista) e di Emilio Di Giovine. Quest'ultimo aveva collaborato con la giustizia pressoché in parallelo con Cuzzola. Sennonché, anziché parlare dei rapporti fra Domenico Papalia e i servizi segreti o della Falange Armata (giammai: quelli sono argomenti sui quali anche Di Giovine ha fatto come le tre scimmiette), anche Di Giovine (peraltro figlio e nipote di appartenenti alla polizia penitenziaria) sostenne che Umberto Mormile si era prodigato in passato al carcere di Parma a fare favori a lui e pure a Domenico Papalia in cambio di compensi illeciti. Qui però Di Giovine aveva compiuto uno scivolone, sostenendo di aver fatto avere a Umberto Mormile anche un'auto, una Volkswagen Golf. In effetti, l'educatore penitenziario aveva avuto una macchina di quel tipo. Peccato, però, per la credibilità di Di Giovine che le auto non siano come i soldi contanti, sono beni registrati, lasciano tracce, e quell'auto Umberto Mormilenon l'aveva ricevuta certo da Di Giovine ma l'aveva comprata di seconda mano da un collega di suo fratello Stefano, dipendente del ministero della giustizia.
E poi, per la teoria calunniosa che voleva far credere che Umberto Mormile fosse stato ucciso perché, pur corrotto, non aveva concesso a Domenico Papalia un ultimo favore, il problema più grosso rimaneva il banale buon senso. L'educatore penitenziario dal 1987 lavorava a Opera, dove non si era mai occupato della posizione di Domenico Papalia, arrivato in quel carcere nel 1988. Il boss di Platì continuava a godere di benefici penitenziari fin dai primi anni Ottanta, quando era stato detenuto a Roma, e aveva continuato a usufruirne fino alla seconda metà del 1989, quando di ritorno da un permesso in Calabria era stato controllato a Parma (mentre doveva rientrare al carcere di Opera) insieme a un altro boss, Vittorio Canale, sull'auto del quale vennero trovati contanti e titoli per oltre cento milioni di lire.
Dal carcere di Opera a quel punto sarebbe stato complicato ottenere di nuovo i permessi. Domenico Papalia aveva anche aggredito verbalmente un'educatrice, amica di Umberto, considerata colpevole di non assecondarne le esigenze. A quel punto Papalia aveva ottenuto di farsi trasferire in Veneto, da dove a ogni colloquio con i fratelli intimava l'ordine di morte per Umberto Mormile, la cui uccisione, sosteneva, era necessaria perché egli potesse nuovamente godere dei benefici penitenziari.
Un omicidio ordinato dal carcere quale condizione per andare di nuovo in permesso? Quello che sembrava un delirio fu esatta profezia: Umberto Mormile venne assassinato l'11 aprile 1990, Domenico Papalia il 26 luglio 1990 tornò a uscire in permesso dal carcere di Bergamo.
Senza trascurare una questione insuperabile, per quella che ho definito la teoria calunniosa: i benefici penitenziari vengono concessi dalla magistratura di sorveglianza, non certo dall'educatore penitenziario. E nel fascicolo risultavano circostanze alle quali nessuno aveva mai prestato attenzione.
Il collaboratore di giustizia Saverio Morabito, interrogato dal pubblico ministero Alberto Nobili, il 15 gennaio 1993 aveva riferito alcune circostanze sui legami personali di Domenico Papalia: «Non so se può essere utile, ma è forse opportuno che io dica che allorché il Papalia Domenico era detenuto qui a Bergamo, mi riferì, tra le tante altre cose di cui si parlava in carcere, della sua ottima amicizia con la dottoressa Matone che, all'epoca dei nostri discorsi, mi disse lavorare come Magistrato al Tribunale dei Minorenni di Roma. Il discorso cadde sulla D.ssa Matone, che io non conosco e non so neanche se effettivamente si chiami in quel modo, allorché il Papalia mi raccontava delle sue possibilità o dei suoi agganci per ottenere trasferimenti di carceri. Tali necessità potevano nascere per i motivi più vari, non da ultimo di poter essere detenuto in carceri dove c'era più elasticità per la concessione di permessi. Lui andò al carcere di Parma, di Opera e di Bergamo nell'ultimo periodo. È stato a lungo anche a Civitavecchia e già dissi che il direttore di quel carcere era il fratello della Donato Bruna, amante del Papalia e sua convivente e poi già donna del D'Agostino». Nel 1993 erano ancora di là da venire le comparsate della dottoressa Simonetta Matone a Porta a Porta chezVespa e quindi era magistrata per nulla nota e non era certo, com'è diventata ora, Deputata della Repubblica.
Su quelle dichiarazioni di Morabito, però, non risultava effettuato alcun accertamento e nemmeno alcun uso, al contrario delle calunnie di Schettini e Di Giovine contro Umberto Mormile: erano rimaste lettera morta. Fu così che, quando il boss Domenico Papalia, il 29 giugno 2022, scrisse una nota alla Procura di Milano dicendosi disponibile a essere interrogato, io chiesi l'autorizzazione all'Ufficio di sorveglianza di Reggio Emilia per poterlo interrogare. Già da tempo montava in favore del mandante dell'omicidio Mormile, intanto iscrittosi al Partito Radicale (come Giusva Fioravanti e Francesca Mambro) una campagna di opinione volta a fargli avere la grazia. Su quell'onda innocentista, il capomafia di Platì aveva pure ottenuto la revisione per la vecchia condanna all'ergastolo per l'omicidio di Antonio D'Agostino, pronunciata dalla Corte di appello di Perugia senza che venisse esaminato nessuno dei tanti collaboratori di giustizia che in epoca successiva alla condanna irrevocabile per quel delitto avevano confermato che Papalia ne era responsabile, qualcuno aggiungendo: in complicità coi servizi segreti. In considerazione del suo desiderio di ottenere la grazia, dunque, Papalia, per mostrare di essere un cittadino modello, avrebbe senz'altro accettato di rispondere alle mie domande.
E quindi il 18 ottobre 2022 lo andai a sentire, alla presenza delle sue avvocate, Ambra Giovene e Annarita Franchi. Naturalmente trascuro le sue professioni di integrità morale, ripetutamente ribadita, e le asserite calunnie dei pentiti (Cuzzola in primis) contro di lui.
Io naturalmente avevo portato con me quel verbale d'interrogatorio di Saverio Morabito. Prima chiesi a Papalia chi fosse stato il primo magistrato di sorveglianza a concedergli permesso: «Prima c'era un magistrato di sorveglianza di sesso maschile. Poi a sbloccare il permesso libero fu la dottoressa Matone. Ricordo che portai in udienza un carteggio molto consistente e la invitai a leggere tutto. Dopo qualche mese la dottoressa Matone segnalò al presidente del Tribunale di sorveglianza che il mio comportamento da detenuto era impeccabile nonostante io fossi detenuto da innocente. Il presidente rispose che era lei il magistrato di sorveglianza e quindi spettava a lei concedermi i permessi». A quel punto gli chiesi cosa pensasse delle dichiarazioni di Morabito sui suoi rapporti con la dottoressa Matone. E lì Papalia mi spiazzò, a dir poco. Quelle di Morabito non erano calunnie: «Morabito sapeva che fra me e la dottoressa Matone era nata una simpatia ed era rimasto un rapporto personale. Tanto che quando lei fu segretaria del Ministro di grazia e giustizia Vassalli e io andavo in permesso mi capitava di telefonarle. Mi aiutò anche per il trasferimento al carcere di Augusta. Poi non continuai a intrattenere rapporti con la dottoressa Matone perché non volevo che gliene potesse derivare qualche effetto negativo. Ricordo che c'era una suora al carcere, suor Gervasia, che intratteneva rapporti con la dottoressa Matone segnalandole situazioni meritevoli di valutazione. Anch'io ho collaborato con suor Gervasia. Morabito probabilmente sapendo di questi rapporti ha riferito quelle cose ai magistrati quando collaborò con la giustizia. Ma il comportamento della dottoressa Matone in relazione ai provvedimenti da lei assunti era del tutto corretto e non si trattava di condotte illecite o di favore».
Mi pareva una cosa fuori dal mondo: il boss Domenico Papalia usciva dal carcere in permesso e contattava la dottoressa Matone al ministero di grazia e giustizia! Era il 1987, proprio quando dal ministero fu disposta una ispezione al carcere di Parma, nel corso della quale, anche se alla fine non fu trovato alcun addebito da muovere a Umberto Mormile e quindi nessuna sanzione fu emessa contro di lui, non mancarono schizzi di fango nei suoi confronti. Addirittura, con una nota del 24 giugno 1987 un funzionario dell'amministrazione penitenziaria riferì la telefonata che gli sarebbe pervenuta dal magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, competente per il carcere di Parma, tale Prampolini, con affermazioni assai dure proprio su Umberto Mormile. Fu per questo che chiesi a Papalia chi fosse il magistrato di sorveglianza che gli concedeva i permessi premio mentre era ristretto al carcere di Parma. La risposta fu lapidaria: «si tratta del dottor Prampolini».
Insomma, qualunque approfondimento si fosse voluto fare sul percorso detentivo di Domenico Papalia, l'unica cosa certa è che da Umberto Mormile non aveva certo mai ricevuto alcun favore. Per questo lasciarono un po' sgomenti, il giorno dopo l'omicidio dell'educatore penitenziario, le parole critiche che un magistrato di sorveglianza di Milano, Francesco Maisto, aveva reso a Piero Colaprico di Repubblica, allorché il giornalista gli aveva posto l'attenzione sulle relazioni degli educatori penitenziari in ordine alle richieste di benefici penitenziari (che però dovevano essere concessi dai magistrati e dai tribunali di sorveglianza): «Ci siamo resi conto che ci arrivano da Opera delle relazioni incomprensibili. Insomma psicologi ed educatori si trinceravano dietro parole fumose per evitare di essere ritenuti responsabili delle libertà dei detenuti. E così abbiamo stabilito che le relazioni dovevano essere collettive». A leggere le dichiarazioni rese ai magistrati dall'educatrice penitenziaria Caterina Martino, peraltro, risultava che era lei al carcere di Opera a occuparsi di Domenico Papalia e che, proprio nell'occasione del controllo a Parma insieme a Vittorio Canale, il magistrato che aveva concesso il permesso premio fosse stato il dottor Maisto.
Se per i pentiti Papalia mostrò generale disprezzo, per uno di loro, al contrario, non mostrò per nulla malanimo: «Con Pace ebbi rapporti perché, tramite mio fratello Antonio, si offrì di trovarmi una abitazione a Bergamo nella quale io potessi trascorrere la detenzione domiciliare. Quindi dissi a mio fratello di farlo venire per ringraziarlo di quanto aveva fatto».
Comunque fosse, a distanza di trentaquattro anni dal delitto, la sentenza del Gup finalmente restituiva dignità alla memoria di Umberto Mormile, proprio in linea con le dichiarazioni di quell'educatrice penitenziaria, Caterina Martino: «io Umberto Mormile l'ho conosciuto e non posso assolutamente credere che prendesse mazzette o si fosse fatto corrompere. Questo non lo crederò mai, non solo per le sue precarie condizioni economiche - ricordo che scherzando spesso diceva “Armida mi mantiene” - ma anche per la sua serietà professionale che ho potuto constatare per tutto il periodo in cui ci ho lavorato insieme».
Ma, dicevo, ho peccato di ingenuità a pensare che per i familiari di Umberto le vicissitudini processuali fossero solo fantasmi di un passato da relegare, senza rimpianti, in archivio.
(continua) - fonte: da antimafiaduemila.com