Eni-Nigeria, il pm messinese De Pasquale condannato a otto mesi per non aver depositato atti favorevoli alle difese
Sono stati condannati a otto mesi i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, nel processo a Brescia in cui sono imputati di rifiuto di atti d'ufficio per non aver depositato, nell’ipotesi accusatoria, atti favorevoli alle difese nel processo Eni/Shell-Nigeria, poi conclusosi a Milano con l'assoluzione di tutti gli imputati.
Lo ha deciso il tribunale bresciano, presieduto da Roberto Spanò, che ha accolto la richiesta dei pm Francesco Milanesi, Donato Greco e il capo della procura Francesco Prete.
Il collegio ha concesso ai due magistrati le attenuanti generiche e, a differenza di quanto chiesto dalla procura, la sospensione condizionale della pena con la non menzione. Inoltre li ha condannati al pagamento delle spese in solido con la presidenza del Consiglio, da liquidare in separata sede alla parte civile Gianfranco Falcioni, l'ex vice console onorario per l'Italia in Nigeria e tra gli assolti del processo milanese. Ora bisognerà attendere quarantacinque giorni per il deposito delle motivazioni.
Nell’impostazione accusatoria, De Pasquale e Spadaro avrebbero nascosto prove favorevoli agli imputati nel processo per corruzione internazionale nei confronti di Eni, procedimento nato sull’ipotesi di una presunta maxi tangente da un miliardo di dollari, pagata per la concessione e lo sfruttamento del giacimento petrolifero Opl-45. Il collegio (presidente Roberto Spanò, giudici Wilma Pagano e Paola Giordano) ha emesso la sentenza dopo circa tre ore di camera di consiglio.
De Pasquale, 67 anni, è stato procuratore aggiunto a capo del pool reati internazionali della procura di Milano, ruolo che lo ha portato a indagare sui fatti oggetto del processo Eni Nigeria. Sergio Spadaro, 48 anni, dopo l’incarico da pubblico ministero presso la procura di Milano, ricopre quello di sostituto procuratore presso la procura europea Eppo.
La difesa dei due magistrati, con l’avvocato Massimo Dinoia annuncia ricorso in appello. "E' un pericoloso precedente che mette in discussione il principio fondamentale che è quello dell'autonomia delle scelte processuali del pubblico ministero – commenta la sentenza Dinoia –. Se una persona esterna può dire “devi fare questo e compiere questa attività di indagine pur non sapendone nulla di quel processo” e si rischia di andare in galera - afferma Dinoia - processi saranno condizionati dall'esterno. Basta mandare degli atti e il pm sarà obbligato a depositarli".