Il problema dell’indipendenza: Falcone e il caso Ardita
di Marco Serio - L’estromissione del pm Sebastiano Ardita dalla corsa per la Procura di Catania solleva polemiche mai sopite sul sistema correntizio in seno al CSM e sulla delegittimazione cui sono sottoposti indefessi servitori dello Stato. In una temperie arroventata dallo scontro tra magistratura e governo, costerna sapere che, anche a trentadue anni dalla strage di Capaci, perdurano i giochi di alleanze che ottundono i veri scopi dell’organo di autogoverno della magistratura.
La Commissione Incarichi direttivi non ha tenuto conto della domanda per la procura catanese del dottor Ardita, il quale, a detta di alcune voci circolanti tra i membri di Mi, sarebbe troppo indipendente e troppo vicino al magistrato inquirente della Trattativa Stato-Mafia Nino Di Matteo. Insomma, un magistrato ingestibile. Scomodo. Sono accuse, queste, che rimandano, tristemente, alle calunnie e alle frasi ingiuriose di cui il giudice Falcone fu vittima nel periodo in cui prestò servizio presso il Ministero della Giustizia. Al giudice palermitano, però, venne contestato il fatto di essere poco indipendente, per via della sua vicinanza a Claudio Martelli, delfino di Craxi e titolare del dicastero in via Arenula. Sulle colonne del giornale comunista «L’Unità», in merito alla corsa per dirigere la neonata Direzione Nazionale Antimafia – nota anche come Superprocura – comparve un articolo del giurista Alessandro Pizzorusso dal titolo Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi spiego perché. Scriveva il giurista eletto al CSM in quota Pds: «La collaborazione tra ministro e magistrato s’è fatta così stretta che non si sa bene se sia il magistrato che offre la sua penna al ministro o se sia il ministro che offre la sua copertura politica al magistrato».
Leggendo ciò che veniva detto sul suo conto e confidandosi con i suoi colleghi, Falcone proruppe in una reazione di sdegno: era giusto contestare le sue idee, ma non infangare il suo onore. Chiamati a elaborare proposte da sottoporre al plenum del CSM per la nomina del capo della DNA, i membri della Commissione Incarichi direttivi decisero di votare Agostino Cordova, Procuratore di Palmi, perché lontano da centri di potere, a differenza del giudice palermitano, anch’egli in lizza. Nel corso di quell’assise, Falcone subì l’ennesima bocciatura, reo di essere troppo famoso per le sue inchieste; troppo ingombrante per il suo ruolo di Direttore degli Affari Penali al ministero. Gianfranco Viglietta, componente della commissione, così giustificò l’appoggio a Cordova: «Ancorché per carattere schivo e naturale riserbo (che non costituiscono certo un demerito) il dott. Cordova non sia universalmente conosciuto come il dott. Falcone, le sue attitudini vanno considerate prevalenti». Scrisse, inoltre, che, mentre Falcone aveva potuto beneficiare delle collaborazioni di colleghi come Chinnici e Caponnetto, Cordova era stato il «Chinnici di sé stesso». In stato d’accusa erano l’indipendenza e la fama – da alcuni ritenuta indebita – del giudice istruttore del Maxiprocesso di Palermo.
La mancata nomina di Falcone alla Superprocura è stata l’ennesima occasione mancata per assestare un duro colpo alle consorterie criminali; un’occasione mancata che avrebbe dovuto fare da monito per i posteri: ma niente da fare. Ragionando sul presente, l’apporto del dottor Ardita, massimo esperto di borghesia mafiosa catanese, avrebbe potuto essere prezioso per il disvelamento di quei coni d’ombra che ancora ottenebrano i rapporti tra mafia e politica.
L’ipocrisia, frattanto, incede tra i vessilli della legalità sciorinati nei giorni della memoria antimafia. E’ bene ricordare, dunque, i versi della poesia che Alda Merini dedicò al magistrato ucciso a Capaci: così è stato per te, Giovanni, trasportato a braccia da quelli che ti avevano ucciso.