Fallimento Banca popolare di Vicenza, la parola alla Consulta
Sarà un altro organo a doversi occupare il crac della Banca popolare di Vicenza che riguarda anche alcuni correntisti messinesi. La Quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha rinviato alla Corte Costituzionale il procedimento per il quale sono imputati l’ex presidente dell’Istituto di credito Gianni Zonin, gli ex dirigenti Paolo Marin e Andrea Piazzetta, l’ex vicedirettore generale Emanuele Giustini e Massimiliano Pellegrini. In particolare, gli ermellini hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2641 del Codice civile, che – informa una nota della Suprema Corte – «prevede la confisca obbligatoria per equivalente dei beni utilizzati per commettere il reato, per sospetto contrasto col principio costituzionale, convenzionale ed eurounitario di proporzionalità».
Dopo una lunga camera di consiglio, la Quinta sezione ha quindi rimesso gli atti alla Consulta e sospeso il processo e il decorso dei relativi termini prescrizionali. «Si apre una concreta possibilità di ottenere totale ristoro per le numerose parti civili che avevano aderito alla richiesta dell’Istituto bancario di finanziamento soci – commenta l’avvocato Nino Cacia –. La Corte d’appello di Venezia aveva revocato la confisca di oltre 900.000 euro dell’Istituto vicentino disposta per equivalenza. E la Cassazione, in esito all’udienza dello scorso 14 dicembre, aderendo alle richieste della Procura generale e delle parti civili costituite, ha rimesso gli atti alla Consulta al fine di verificare se l’impianto normativo di cui all’art. 2641 del Codice civile risponde ai criteri di costituzionalità e parametri eurocomunitari. La questione, pertanto, è rimessa al giudice delle leggi. Il dato significativo – a mio avviso – rimane la scelta di sollevare la questione di conformità alla Carta Costituzionale, soluzione ermeneutica che avrebbe potuto non essere ritenuta rilevante ove i giudici di legittimità avessero inteso confermare la decisione della Corte territoriale veneziana».
Quanto ai correntisti messinesi, lo scorso settembre i giudici di Palazzo Piacentini avevano ordinato il risarcimento a beneficio di due di essi: 185mila euro per uno, 80mila per un altro. Il 23 giugno 2016, avevano denunciato di aver investito, ciascuno, la somma di 6.250 euro in titoli bancari e sostenuto che l’Istituto di credito, «senza alcuna previa autorizzazione», si sarebbe appropriato delle somme «al fine di eseguire le relative operazioni di acquisto, salvo poi richiedere loro una successiva ratifica». Un cliente «avrebbe subito un arbitrario prelievo forzoso sul proprio conto corrente», l’altro, non avendo disponibilità, «avrebbe subito l’accensione di un prestito finalizzato all’acquisto di titoli». Poi, un impiegato e il direttore avrebbero proposto ai due «un ulteriore investimento, per un ammontare di 75mila euro», sul quale «non solo davano rassicurazioni sull’assenza di rischio finanziario, ma addirittura prospettavano loro che, alla scadenza di un periodo di tre anni, l’interesse garantito sarebbe stato del 25% al netto della sorte capitale di guisa da indurli alla sottoscrizione del relativo contratto di acquisto». E «poiché i contratti in questione avevano ad oggetto l’acquisto di azioni della Banca popolare di Vicenza (società controllante Banca Nuova in forte crisi), già dalla fine del 2014», il valore delle azioni calava drasticamente, tanto che la Banca vicentina avrebbe proposto ai correntisti, nel frattempo divenuti soci, «una transazione in cui il valore delle azioni – a suo tempo acquistate per un ammontare di 62,50 euro cadauno – veniva addirittura individuato in appena 9 euro».