40 dall’omicidio Caccia, Fabio Repici: ”Verità accertata non basta. La magistratura non ha fatto tutto”
di Jamil El Sadi - Sono passati 40 anni da quando il procuratore di Torino Bruno Caccia venne assassinato da due killer sotto casa sua. Un omicidio 'eccellente' commesso al Nord dalla ‘Ndrangheta ma non solo. Per l'omicidio del magistrato sono stati condannati, con conferma in Cassazione, Rocco Schirripa, accusato di aver partecipato al delitto, e Domenico Belfiore come mandante. A Milano è stato aperto un fascicolo in anni recenti, partito dalle dichiarazioni del pentito Domenico Agresta. La famiglia da sempre sostiene che ci siano ancora molte ombre e misteri legati alla morte del primo magistrato ucciso nel Nord Italia dalla 'Ndrangheta. A rappresentare i figli di Bruno Caccia è l’avvocato Fabio Repici, che abbiamo intervistato per comprendere meglio i retroscena del delitto che, come tanti altri omicidi e stragi che hanno segnato la storia repubblicana del Paese, è stato oggetto di depistaggio e negligenza istituzionale. E che oggi, a distanza di 40 anni, grida ancora verità e giustizia.
A quarant’anni di distanza dall’omicidio di Bruno Caccia siamo difronte all’ennesimo caso di una verità parziale. E in quanto tale, non si tratterebbe di una verità negata?
La verità accertata è solo un piccolo spicchio della realtà complessiva che ha portato alla decisione di uccidere Bruno Caccia e poi all’esecuzione dell’omicidio. È stato commesso anche da esponenti di un’organizzazione ‘ndranghetista, ma non solo. È emblematico che nel processo che si è celebrato negli anni scorsi a carico di Rocco Schirripa la Procura di Milano ha dovuto fare un’indecente marcia indietro dopo l’emissione della misura cautelare.
Ci può spiegare?
In una conferenza stampa la dottoressa Ilda Boccassini e il dottor Marcello Tatangelo sostennero che avevano individuato il primo killer di Bruno Ciaccia, ovvero la persona alla guida della Fiat 128 che la sera del delitto aveva esploso i primi colpi di pistola che colpirono il procuratore di Torino facendolo cadere, prima di subire gli ultimi colpi esplosi dal passeggero della 128 che era sceso dall’auto e lo colpì sparandogli a terra alla testa. Alla fine del dibattimento del processo a carico di Schirripa fu lo stesso pm Tatangelo che ebbe a dire ai giudici della Corte d’Assise che c’è prova certa che Schirripa quella sera fosse sui luoghi ma non sappiamo che cosa abbia fatto e che ruolo abbia svolto. È un caso forse unico nella storia giudiziaria italiana, di un imputato - in qualità di esecutore materiale - che inizialmente viene indicato come il killer che esplose i colpi di pistola e poi viene condannato per avere avuto qualche ruolo non meglio chiarito nella fase esecutiva.
Lei non ha mai nascosto il suo disappunto nei confronti di alcune scelte di alcune attività di indagine.
I magistrati che si erano occupati in questi 40 anni tra Torino e Milano non hanno fatto tutto quello che poteva essere fatto per l’accertamento quanto più completo della verità. Si è limitata la ricostruzione del più clamoroso delitto capitato nella storia repubblicana a Torino a una sorta di personale vendetta da parte di un gruppetto della ‘Ndrangheta, neanche il più potente dell’epoca a Torino. Consideri che Domenico Belfiore in realtà lo definiamo convenzionalmente mafioso ma non è mai stato condannato per 416bis. Parlo anche dei magistrati di Torino perché nelle prime indagini non c’è dubbio che abbiano avuto un ruolo anche i magistrati torinesi, se solo pensassimo che il processo a carico di Belfiore è stato fatto con l’iniziativa anomala della delega di indagine al Sisde che subdelegò il mafioso Francesco Miano nelle carceri. Quella iniziativa fu il seguito di un’idea di un sostituto procuratore di Torino, il dottor Marcello Maddalena che prese l’iniziativa di autorizzare un funzionario del Sisde a fare il primo colloquio con Miano in carcere.
C’è stato un tentativo di ridimensionare questo omicidio. Sembrerebbe un depistaggio.
Si, bisognava evitare di cogliere il grosso scenario dentro il quale questo omicidio è stato prima ideato e poi eseguito. Bisogna considerare, in quanto alle lacune dell’attività di indagine e processuale, che fino a poco tempo fa i figli di Bruno Caccia (da me assistiti), nonostante le ripetute richieste, non erano mai stati sentiti come testimoni sull’uccisione del procuratore né nessuno dei suoi colleghi d’ufficio né i suoi figli. In particolare Guido Caccia. Il paradosso è che durante la celebrazione del processo a carico di Rocco Schirripa l’unico modo con il quale la cittadinanza poté avere notizia dell’ultima confidenza di Bruno Caccia al figlio, fu la pubblicazione di un’intervista al giornalista Fabrizio Gatti su L’Espresso nella quale Guido Caccia rivelò che l’ultima volta che parlò con suo padre quest’ultimo gli confidò in modo del tutto inusuale - dato che non parlava mai di lavoro - che a breve sarebbero successe cose grosse. Morto Bruno Caccia in realtà quelle cose eclatanti non si verificarono.
Perché non si è indagato su questo aspetto?
Mai nessun magistrato, fino a poco tempo fa, ha avuto interesse a verificare se Bruno Caccia avesse confidato a qualcuno pericoli che avesse percepito per la sua persona. E allo stesso modo mai è stato verificato quali sono state le ultime attività svolte da Bruno Caccia. Su questo è stato steso un velo. Solo di recente in un fascicolo della Procura generale di Milano, un’indagine che allo stato è a carico di Francesco D’Onofrio, sulla base delle dichiarazioni del pentito Domenico Agresta, il sostituto procuratore generale di Milano dottor Proietto svolse approfondite attività d’indagine. E abbiamo saputo che Proietto per la prima volta violò quel tabù andando a sentire i magistrati che lavoravano con Caccia alla procura di Torino nel 1983. Sugli esiti di questa indagine ancora non sappiamo nulla. I termini dell’indagine sono sicuramente scaduti. Speriamo nei tempi più brevi possibili di averne contezza.
Come inquadra le parole pronunciate dal Presidente Mattarella questa mattina in memoria del procuratore Bruno Caccia?
Sono rimasto molto soddisfatto dalle parole del presidente della Repubblica. E il Quirinale le parole non le usa mai a caso. Ho apprezzato molto due aspetti in particolare. Innanzitutto, il Capo dello Stato nel suo comunicato ufficiale richiama le parole dei figli di Bruno Caccia che in questi anni anno continuato a lamentarsi del minimalismo assegnato dai magistrati che indagavano all’omicidio di Bruno Caccia. In secondo luogo, è da notare che Mattarella non ha parlato semplicemente di criminalità ‘ndranghetistica ma di una struttura plurale di organizzazioni criminali di tipo mafioso. con questo alludendo a ciò che è sotto gli occhi di tutti, ovvero che quello di Caccia è un omicidio di alto livello che vede la partecipazione di più aggregati criminali in una convergenza di interessi. E per altro sono stati sicuramente mafiosi ma non solo.
Potrebbe servire un lavoro parallelo da parte della commissione parlamentare antimafia?
In un Paese normale la 'palla' toccherebbe anche alla Commissione parlamentare antimafia. Ma se nelle precedenti legislature, appare una meritoria iniziativa dell’on. Mattiello - per cui fu successivamente fustigato -, non c’è stato alcun minimo spunto di interesse o di sensibilità sull’omicidio di Bruno Caccia. Eppure, trattandosi nel quale c’è una verità molto più che parziale e una ricostruzione ancora da effettuare sarebbe il classico caso di scuola che dovrebbe vedere impegnata la Commissione. Ma mi chiedo: c’è da sperare su questa Commissione antimafia? Le premesse fanno ben sperare. Fonte: antimafiaduemila.com