PROCESSO ‘BREAKFAST’: La messinese Chiara Rizzo e Pg rinunciano ad appello. La condanna ad un anno (pena sospesa) diventa definitiva
Sia la Procura generale di Reggio Calabria che Chiara Rizzo, l'ex moglie dell'ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, hanno rinunciato all'appello nel processo "Breakfast".
La decisione è stata presa oggi nel corso dell'udienza del processo di secondo grado.
La Corte, presieduta da Lucia Monaco, ha quindi reso atto e stralciato la posizione di Chiara Rizzo, difesa dall'avvocato Candido Bonaventura. Per l'ex moglie di Matacena, quindi, la condanna a un anno di carcere con pena sospesa, rimediata nel 2020 in primo grado, è andata definitiva.
Il processo è stato, invece, rinviato al 22 febbraio per gli altri imputati.
Tra questi c'è Claudio Scajola, l'ex ministro dell'Interno ed attuale sindaco di Imperia, imputato di procurata inosservanza della pena in favore di Matacena. L'ex parlamentare di Forza Italia è morto il 16 settembre scorso presumibilmente a causa di un infarto a Dubai, dove si era rifugiato da dieci anni dopo essere stato condannato in via definitiva a tre anni di reclusione, a conclusione del processo "Olimpia", per concorso esterno in associazione mafiosa.
In primo grado Scajola è stato riconosciuto colpevole e condannato a due anni di reclusione. Per lui e per gli altri due imputati, Martino Politi e Maria Grazia Fiordalisi (entrambi assolti in primo grado), proseguirà con il rito ordinario il processo nato da un'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Un'inchiesta della Dia che, nel 2014, aveva portato all'arresto di Scajola.
L'avvocato Candido: "Messa la parola fine. Chiara Rizzo non avrebbe dovuto varcare la soglia del carcere".
Dopo quasi dieci anni oggi sulla vicenda giudiziaria di Chiara Rizzo e’ stata scritta la parola “fine”. L’odierno epilogo mette il sigillo ad alcuni incontrovertibili realtà di fatto: Chiara Rizzo (che mi ha già dato mandato di avviare le procedure per ottenere il ristoro conseguente all’ingiusta detenzione) non avrebbe dovuto subire la custodia cautelare e comunque non avrebbe dovuto varcare la soglia del carcere La richiesta di condanna ad 11 anni di reclusione - e la proposizione dell’appello dopo la sua assoluzione per le più gravi delle ipotesi - sono state rivalutate dalla procura generale che ha ritenuto di non coltivare più l’azione ritenendola evidentemente non fondata o comunque non sostenuta da prove convincenti. Il clamore, la custodia cautelare, il dispiegamento di forze, i costi per la giustizia sono stati solo eccessi che hanno fatto inutilmente male a tante troppe persone. Ora la mia cliente chiede solo di essere dimenticata e di poter vivere serenamente la propria vita accanto al marito ed ai figli che - anche loro - hanno subito pene indirette Per quanto mi riguarda, certamente soddisfatto per un esito più che positivo frutto di un lavoro costante durato un decennio, non posso fare altro che auspicare (probabilmente invano) che chi ha preso certe decisioni possa trarre insegnamento da questa vicenda e comprendere che la ndrangheta non e’ “sale” per ogni pietanza.