Di Matteo: ”Davigo minacciò verbalmente Ardita per la nomina di Prestipino a Roma”
di Giorgio Bongiovanni, Marta Capaccioni e Jamil El Sadi - Nino Di Matteo tuona e ancora una volta squarcia il velo pietoso che da tempo investe una parte della magistratura italiana. Poco tempo prima della nomina del Procuratore della Repubblica di Roma - che avvenne in seduta plenaria del Csm il 4 marzo 2020 in favore del dottor Prestipino - “ci fu una riunione del gruppo ‘Autonomia e Indipendenza’ nell’ufficio del dottor Davigo. Io partecipai perché mi invitarono. Erano presenti i consiglieri Piercamillo Davigo, Sebastiano Ardita, Ilaria Pepe e anche un collega: Alessandro Pepe (già componente del Csm nonché Coordinatore Generale di A&I, ndr). In quell’occasione ci fu una vera e propria aggressione verbale da parte del dottor Davigo ai danni del dottor Ardita. Io assistetti e reagì istintivamente”. Ed è da quel momento che qualcosa, nel rapporto tra i due magistrati, sarebbe profondamente cambiato. Di Matteo è intervenuto così martedì scorso nel Tribunale di Brescia, testimoniando nel corso del processo a carico dell’ex consigliere togato Piercamillo Davigo, in relazione ai verbali secretati dell'ex legale esterno di Eni, Piero Amara, nei quali si parlava della presunta Loggia “Ungheria” (presidente Roberto Spanò; pm Francesco Carlo Milanesi e Donato Greco). In quei verbali, contenenti alcune dichiarazioni di Amara fatte al sostituto procuratore Paolo Storari e al procuratore aggiunto Laura Pedio, circa l'esistenza di un'organizzazione segreta in grado di pilotare nomine nella magistratura e nei più importanti incarichi pubblici, erano contenute, tra le altre cose, “accuse palesemente calunniose e addirittura risibili” ai danni del consigliere togato al Csm Sebastiano Ardita. Per Di Matteo, un tentativo di condizionare l’attività del Consiglio, di delegittimazione del dottor Ardita ma anche un tentativo di condizionamento della sua attività e, indirettamente, anche della mia”.
Oltre a Di Matteo, sono stati uditi anche l’ex presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra e i consiglieri del Csm Fulvio Gigliotti, Stefano Cavanna e Giuseppe Cascini. Morra ha raccontato come la prospettiva di nominare il consigliere del Csm uscente, Sebastiano Ardita, come consulente in qualche attività della commissione parlamentare antimafia è “naufragata” dopo aver saputo da Piercamillo Davigo che c’era il sospetto facesse parte “di un’associazione che imponeva il vincolo della segretezza”. In questo processo Ardita è parte civile, difeso dall’avvocato Fabio Repici, ritenendosi danneggiato dalla diffusione di quelle notizie ritenute infondate. I verbali di Amara, infatti, finirono sotto forma anonima a diverse testate giornalistiche, comprese “Il Fatto Quotidiano”, che non pubblicarono i verbali apocrifi ma denunciarono il caso agli inquirenti. Per questo era finita sotto indagine Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo al Csm, per cui il gup di Roma ha disposto ulteriori indagini accogliendo la richiesta della difesa. Morra, inoltre, ha spiegato di essersi recato in ufficio da Davigo nell’estate del 2020 per cercare di “ricomporre la frattura” tra lui e Ardita “ai fini del lavoro della commissione che presiedevo. Mi ha invitato a seguirlo, dopo aver preso un faldone sulla tromba delle scale. Vidi un foglio in cui lessi il nome di Ardita. E mi disse che faceva parte di un’associazione segreta di cui aveva parlato un dichiarante a una procura del Nord. Quindi, su mia domanda, mi suggerì non di rompere i rapporti ma di usare prudenza”. “Credo che il rifiuto di riallacciare i rapporti con Ardita fosse dovuto a queste dichiarazioni – ha aggiunto – e che mi avesse fornito questo dato al fine di evitare imprudenze”. Quindi l’ipotesi di una nomina di Ardita per qualche attività della commissione parlamentare “non è più diventata realtà”.
Di Matteo: un togato indipendente nel gruppo di Davigo
All’inizio della sua testimonianza, Nino Di Matteo ha ripercorso gli anni del concorso in magistratura, il periodo del tirocinio e lo stretto legame costruito nel tempo, tra amicizia e lavoro, assieme al Consigliere Ardita. Con il consigliere Davigo, invece, non ebbe mai un rapporto diretto, fino al momento della sua elezione al Csm nell’ottobre 2019, fatta eccezione per “due o tre occasioni durante convegni o dibattiti, e un’altra occasione nell’arco dell’inchiesta della Trattativa Stato-mafia”. Nel ripercorrere la sua candidatura al Csm, caldeggiata dal dottor Ardita, Di Matteo ha anche precisato di aver “specificato fin da subito” che non si sarebbe iscritto al gruppo di “Autonomia & Indipendenza”, “non perché avessi qualcosa contro quel gruppo, ma perché volevo mantenere la mia estraneità dal mondo dei gruppi organizzati e delle correnti”. Nelle nuove vesti di consigliere togato del Csm, Di Matteo constatò subito che il rapporto tra Davigo e Ardita era “ottimo”. “Lo constatai perché, pur mantenendo la mia posizione di indipendente, mi era capitato diverse volte, su invito sia del dottor Ardita sia del dottor Davigo, ma anche degli altri consiglieri Pepe e Marra, di partecipare a qualche riunione del gruppo (A&I, ndr). Soprattutto quando si discuteva delle posizioni che quel gruppo voleva assumere in relazione a procedure concorsuali della V Commissione del Csm di cui il consigliere Davigo era componente (Commissione per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, ndr)”, ha detto davanti alla Corte. Ma in seguito ad una riunione gli umori cambiarono.
Quando Davigo minacciò Ardita per la nomina di Prestipino alla Procura di Roma
“Più volte era capitato di parlare con questo gruppo di consiglieri della procedura concorsuale per la nomina del Procuratore di Roma - ha premesso Di Matteo -. Procedura che aveva già causato tutte quelle vicende che sono poi compendiate nella famosa vicenda dell’hotel Champagne. Io ero spesso consultato perché con la mia esperienza professionale, sia a Palermo sia alla Procura Nazionale Antimafia, mi è capitato di avere ripetuti contatti con tutti i candidati in quel ruolo. Da parte mia, in queste discussioni, si era più volte prospettata l’idea di votare per un candidato diverso da quello che nel frattempo era stato votato in commissione dal consigliere Davigo, ovvero il dottor Prestipino. Non per un problema di disistima nei confronti di quest’ultimo, bensì perché non ritenevo che avesse titoli paragonabili a quelli di altri candidati. Ricordo che, oltre ad Ardita, anche Marra e Pepe mi manifestarono la loro sorpresa e la loro non condivisione della proposta che aveva fatto Davigo. Tanto che, in particolare con i consiglieri Marra e Pepe, mi dissero più volte che loro non avrebbero votato per il dottor Prestipino e avrebbero cercato in tutti i modi di convincere lo stesso Davigo a tornare in qualche modo sui suoi passi, o votando un altro candidato oppure chiedendo il ritorno in commissione anche per rivalutare la possibilità di continuare a sostenere, come in un primo momento il gruppo di “A&I” aveva sostenuto, quando io ancora non c’ero, la candidatura del dottor Viola”. Ed ecco la riunione nell’ufficio di Davigo, “che credo di poter collocare pochi giorni prima rispetto al plenum del 4 marzo 2020 e che per me ebbe un andamento veramente sorprendente, quasi scioccante”, ha aggiunto Di Matteo. “In apertura la consigliera Pepe stigmatizzò il fatto che su alcuni giornali, come spesso avviene per le nomine importanti, erano stati pubblicati degli articoli con la previsione dei voti che avrebbero espresso i singoli consiglieri. In questi articoli venne pubblicato, mi pare da una giornalista del Fatto Quotidiano, la previsione che nel gruppo di ‘A&I’ ci sarebbe stata una spaccatura e che almeno due consiglieri, di cui si facevano i nomi (Di Matteo e Ardita, ndr), non avrebbero votato per il dottor Prestipino - ha detto il magistrato palermitano -. In quel momento la questione mi parve un aspetto poco rilevante. Dissi di andare alla sostanza delle cose. Davigo chiese effettivamente se quelle previsioni corrispondessero alla realtà dei fatti e sia io che il dottor Ardita dicemmo che era nostra intenzione di votare al plenum per il dottor Creazzo, all’epoca procuratore della Repubblica di Firenze”. A quel punto l’atmosfera nell’ufficio sarebbe cambiata. “Il consigliere Davigo con una impressionante veemenza grida al punto da poterlo sentire almeno nella stanza adiacente e nel salottino antistante e, rivolgendosi ad Ardita, disse: ‘Se tu non voti Prestipino automaticamente sei fuori dal gruppo’. E lo ripeté gridando almeno due o tre volte. Ardita mantenne la calma, reagì parlando pacatamente chiedendo delle motivazioni. Il dottor Davigo incalzò gridando: ‘Se tu non voti Prestipino stai con quelli dell’hotel Champagne’. Mi sembrò un’enormità assolutamente risibile. A quel tempo era già nota la trascrizione dell’ambientale dell’hotel Champagne in cui alcuni di quei soggetti dicevano che ‘Ardita era un talebano’; che bisognava fermare Ardita perché voleva sentire il magistrato Fava che aveva parlato delle sue vicende di un’indagine in cui voleva arrestare Amara; e che era perfino andato contro Tinebra”. Quelle affermazioni sorpresero sia Di Matteo sia Ardita che avrebbe risposto: “Ma che cosa stai dicendo?” “Il dottor Davigo, sempre con tono molto aggressivo, ripeté ad Ardita: ‘Tu mi nascondi qualcosa’. A quel punto, mentre Ardita reagiva pacatamente invitando Davigo a riferire a cosa alludesse, ricordo che Davigo rispose: ‘Poi te lo spiego separatamente’. Ardita replicò: ‘No, no, ti autorizzo a dirlo davanti a tutti’. ‘No, te lo dico separatamente’, ha risposto Davigo”. A quel punto, ha ribadito Di Matteo, “intervenni con una reazione istintiva di indignazione”.
“A mia volta alzai la voce e dissi come prima cosa che quello che stava accadendo mi faceva pensare che quel gruppo fosse peggio degli altri perché in quel momento mi sembrava che, da parte del fondatore del gruppo (Davigo, ndr), non si rispettasse la libertà dei singoli consiglieri di votare secondo coscienza. E poi da quanto mi sembrava aggressivo il dottor Davigo e dalla violenza verbale nei confronti del dottor Ardita che si palesava a mio avviso come una minaccia, reagì istintivamente dicendo: ‘Senti, io non mi sono fatto nemmeno condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina. Tanto meno mi faccio condizionare dalle tue minacce’ - ha detto davanti alla Corte -. Non ero io la persona minacciata, ma mi diede molto fastidio vivere una minaccia nei confronti di un altro consigliere che è anche un mio amico. A mio avviso non aveva nessun tipo di giustificazione e continuo a dirlo. A quel punto Davigo rispose: ‘Il problema non è il tuo perché tu sei già esterno al gruppo. Il problema è di Ardita che se non vota Prestipino è fuori dal gruppo’. Poi la riunione si sciolse praticamente subito nell’imbarazzo di tutti, in un clima di fuoco che si era instaurato attraverso questa dinamica”. In seguito a questa vicenda i rapporti che Ardita e Di Matteo avevano con l’ex consigliere Davigo si interruppero. Dell’intera vicenda, “non apprezzai nemmeno l'isolamento dei consiglieri Pepe e Marra - ha aggiunto Di Matteo -. Fino al giorno prima di questa riunione i due mi avevano più volte ribadito il loro convincimento che non si potesse votare il dottore Prestipino come procuratore di Roma ed era loro desiderio convincere il consigliere Davigo a fare altrettanto. Poi però di fatto loro, in piena coscienza, votarono il consigliere Prestipino. Dopo questa riunione cambiarono idea”.
Di Matteo e i verbali di Amara
Oltre all’aggressione verbale di Davigo ai danni di Ardita, su cui Di Matteo ha voluto precisare che “mai mi era stata prospettata l’eventualità di una disistima tra loro né da parte di Davigo né di Ardita”, un altro tema della testimonianza del magistrato palermitano è stato quello dei verbali di Amara, oggetto centrale del dossieraggio che ha investito il consigliere Ardita e non solo. “Era il 18 febbraio 2021 quando, esaminando la posta che il mio assistente al Csm mi aveva messo sulla scrivania, notai che c’era una busta chiusa indirizzata a me e pervenuta tramite spedizione postale con la dicitura ‘riservata personale’. Una volta aperta vidi che all’interno c’era un’altra busta più piccola di colore diverso”, ha detto Di Matteo. All’interno del plico “c’era una stampa in word di un verbale o pseudo tale perché era privo di sottoscrizioni”. Si trattava di “un verbale apparentemente reso dal dichiarante Amara il 14 dicembre 2019 ai pm di Milano Pedio e Storari”. “Non c’erano le firme e non c’erano tutte le pagine (era una stampata da computer), vedevo che c’erano riferimenti a molti personaggi. C’era il riferimento per una questione di una consulenza attribuita secondo Amara, con un intervento illecito da parte dello stesso, al Presidente del Consiglio Conte (o almeno lo era fino a pochi giorni prima). C’erano i riferimenti ad una asserita loggia massonica denominata ‘Ungheria’. E c’erano riferimenti come aderenti a questa loggia”. In quel momento Di Matteo iniziò a sospettare. “Mi colpirono subito i nomi dell’ex comandante generale dell’Arma dei carabinieri Del Sette, del comandante generale in quel momento in carica Zafarana, e soprattutto del consigliere Ardita - ha aggiunto -. Il plico nella busta più piccola conteneva inoltre un documento anonimo dattiloscritto con qualche appunto manoscritto a margine. Nel dattiloscritto sostanzialmente si diceva: ‘Ti vogliamo mettere in guardia per vedere chi frequenti’ ed era chiaro che il riferimento era ad Ardita dato che non frequentavo nessun altro dei personaggi menzionati. Poi c’era scritto: ‘Il procuratore generale della Cassazione e il procuratore Greco stanno insabbiando tutto. Ma seguiranno altre cose sul procuratore Greco’. O comunque una frase del genere”. “Leggendo i riferimenti al dottor Ardita mi sembravano accuse palesemente calunniose e addirittura risibili, individuabili da chiunque avesse un minimo conosciuto la storia del dottor Ardita”, ha aggiunto il magistrato. In particolare, nel verbale c’era scritto che “Amara avrebbe avuto presentato come aderente alla Loggia massonica ‘Ungheria’ il consigliere Ardita nel 2006/2007 dal dottor Tinebra, che glielo presentò come suo uomo di fiducia”. Inoltre, asseriva che “nel 2006/2007 Ardita era sostituto procuratore a Catania”. “Il consigliere Ardita dal 2000/2001 era direttore generale dell’ufficio detenuti e trattamenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Quindi da almeno 6 anni svolgeva un ruolo e ricopriva un incarico completamente diverso - ha spiegato Di Matteo smontando il contenuto del verbale -. Ardita, inoltre, veniva indicato come uomo di fiducia di Tinebra. Un’affermazione risibile perché il dottor Ardita era stato colui che da funzionario del Dap nel 2004 si era opposto (facendo scoppiare il caso) alla stipula di un protocollo segreto tra esponenti del Dap ed esponenti dei servizi di sicurezza del Sisde, che avrebbe permesso a questi ultimi di entrare nelle carceri a fare dei colloqui investigativi con detenuti di mafia, che mano a mano loro potevano indicare, senza passare da un’autorizzazione di nessun magistrato”. Il cosiddetto “Protocollo Farfalla”. Una vicenda delicata che “non aveva visto la partecipazione del dottor Ardita, ma di altri funzionari del Dap: il dottor Tinebra capo del Dap e un altro funzionato, il dottor Leopardi, che avevano stipulato questa bozza di protocollo con gli allora esponenti del Sisde il generale Mori e credo il colonnello Obinu” ha spiegato il teste. “Il dottor Ardita aveva pubblicamente testimoniato e quindi denunciato l’esistenza di questo accordo segreto. Nel nostro ambiente era notorio che non solo nel 2006/2007 non era uomo di fiducia del dottor Tinebra ma che avevano rapporti conflittuali legati a questa vicenda così delicata”. “Il plico anonimo che mi arrivò, con quelle modalità particolari e con quel contenuto dichiarativo relativo al consigliere Ardita, che considerai subito non solo diffamatorio ma anche calunnioso”, indusse Di Matteo a pensare che “ci fosse in atto una manovra per calunniare, screditare Ardita, per colpirlo soprattutto nella sua funzione come consigliere del Csm”. Dopo un fine settimana passato a riflettere, e constatando la sempre più graduale emarginazione di Ardita dentro il Csm, Di Matteo ha ipotizzato che era in corso “una manovra sporca”. “Non sapevo se questi verbali fossero veri o meno ma in ogni caso c’era una manovra sporca in cui tra l’altro volevano coinvolgere anche me. Quando il lunedì successivo ci siamo rivisti (con Ardita, ndr) - eravamo soliti salutarci prima dell’inizio delle rispettive riunioni di commissioni - io ricordo che prima ancora di raccontargli il fatto lo avvertì: ‘Sebastiano ti dico questa cosa perché ci vogliono colpire, ci vogliono dividere, ci vogliono fottere: a te e a me’. E così gli feci vedere il verbale. Rimase assolutamente colpito, attonito. In quella circostanza mi disse solo che lui Amara lo aveva indagato o interrogato nel 2018, se non ricordo male. Non so se a Catania o a Messina. Quel colloquio si chiuse lì. Capì che questa cosa che mi era capitata la dovevo rappresentare all’autorità giudiziaria. In quel momento non sapevo nemmeno a chi. Dopo qualche giorno, o settimana, lessi che la procura di Perugia stava valutando l’attendibilità del dichiarante Amara in relazione ad altre circostanze ed altre rivelazioni. Decisi di contattare il procuratore Cantone. Lì si perse un po’ di tempo (una settimana/dieci giorni) perché nel frattempo Cantone aveva mandato una istanza al Csm per l’apertura di una pratica a tutela in esito ad alcuni articoli di giornale pubblicati dal quotidiano ‘Il Riformista’ in cui sostanzialmente, Cantone e la procura di Perugia, venivano accusati di non svolgere in maniera corretta le indagini sulla vicenda Palamara”. La Prima Commissione di cui faceva parte Di Matteo decise di aprire una pratica a tutela e convocare Cantone. Venne udito per la vicenda perugina il 21 marzo. Di Matteo, non volendo sovrapporre le cose, aspettò il termine che l’audizione terminasse. “Nel pomeriggio lo chiamai e gli dissi: ‘Procuratore ritengo doveroso riferirti a verbale una cosa’ - ha detto Di Matteo -. Gli accennai semplicemente che avevo ricevuto un plico anonimo con delle dichiarazioni di Amara”. In un primo momento i due ipotizzarono l’idea che Di Matteo potesse recarsi a Perugia “uno o due giorni dopo”. Ma “per evitare il clamore di eventuali giornalisti che avrebbero potuto facilmente accorgersi della mia presenza in Procura, Cantone mi disse di presentarmi in una caserma dei Carabinieri a Roma e il 25 marzo gli resi quelle informazioni”. All’Arma spiegò “per filo e per segno” ciò che ha raccontato martedì scorso dinnanzi alla Corte sulla ricezione del plico anonimo. In quella occasione, tra l’altro, “capì che non ero stato l’unico destinatario di quei verbali. Altri verbali - o lo stesso verbale - erano stati mandati a giornalisti. Non sapevo i nomi, ma a giornalisti. In quel momento ebbi ancora di più la rappresentazione plastica di un dato: verbali che, per quanto riguarda Ardita per me erano assolutamente calunniosi, stavano girando nelle istituzioni, nelle redazioni dei giornali e quindi in ambienti del potere, potenzialmente anche molto importanti”.
L’intervento in plenum di Di Matteo e quelle resistenze dietro le quinte
Il consigliere Nino Di Matteo ha poi ripercorso le fasi che precedettero il suo intervento in seduta plenaria al Csm del 28 aprile 2021 quando disse di aver ricevuto nei mesi precedenti "un plico anonimo tramite spedizione postale contenente una copia informale, priva di sottoscrizioni, di un interrogatorio di un indagato davanti all'autorità giudiziaria. Nella lettera anonima che accompagnava il documento quel verbale veniva ripetutamente indicato come segreto. Nel contesto dell'interrogatorio l'indagato menzionava, in forma diffamatoria se non calunniosa e come tale accertabile, circostanze relative a un consigliere di questo organo". Quell’intervento “fu una decisione intrapresa mezz’ora prima di intervenire al plenum - ha precisato Di Matteo -. La mattina il plenum inizia normalmente alle 10. Alle 9 apre la rassegna stampa del Csm e c’era un ampio articolo pubblicato dal quotidiano ‘Domani’ che faceva riferimento alle dichiarazioni di Amara del 14 dicembre 2019, nella parte in cui si riferivano al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. In quel momento avendo capito che quei verbali erano arrivati anche a redazioni di altri giornali ebbi subito il convincimento che si trattasse del primo articolo, ma che ne sarebbero seguiti altri. Per questo ritenni opportuno dire le cose come stavano, ovvero che questi verbali che sono stati inviati anonimamente anche al Csm riguardavano un consigliere togato. Mi sembrava che le porte si fossero spalancate e che dal giorno dopo avremmo assistito a divulgazione di verbali che a mio avviso erano evidentemente calunniosi. Solo chi non voleva vedere la calunniosità nei confronti del dottore Ardita non poteva dubitare di questo”. Di Matteo si recò poi da Ardita e per avvisarlo che sarebbe intervenuto in plenum “senza fare nomi o cognomi”. “Nel regolamento c’è scritto che il consigliere, per argomenti che sono fuori dall’ordine del giorno, può prendere la parola per fatto personale ma deve essere autorizzato dal vicepresidente - ha aggiunto Di Matteo -. Andai dal Ermini (Vicepresidente del Csm, ndr) e gli dissi che avrei preso la parola. Gli dissi che mi vennero mandati in forma anonima dei verbali di Amara. Lui non mi disse nulla. Mi rispose: ‘Ti darò la parola’. Da ciò che disse e replicò brevemente capii che anche lui ne era in qualche modo a conoscenza (dei verbali, ndr). Per questo motivo ritenni di prendere la parola in plenum”. Di Matteo, inoltre, conferma che all’interno del Csm circolavano i verbali di Amara. “Questa cosa la sapevano tutti al Csm”, ha detto aggiungendo un particolare: “Quando andai da Ermini e gli dissi che volevo prendere la parola per dire che avevo ricevuto questo plico anonimo, ovviamente ad Ermini feci il nome di Ardita e lui già lo sapeva. Ermini fu molto corretto e mi disse che mi avrebbe dato la parola all'inizio. Quando salimmo in plenum mentre ci stavamo accingendo a sederci ognuno al suo posto, Ermini mi fece cenno di andare un attimo nell'anticamera, dove c'era il procuratore generale della Cassazione, Salvi, a cui evidentemente Ermini aveva detto che io avrei preso la parola. Il Procuratore generale della Cassazione insistette affinché io non facessi questo intervento, dicendo che aveva già preso contatti con varie procure, con la Procura di Milano e non mi ricordo con quale altre. E mi invitò a non fare l’intervento. Mi chiese: ‘Allora posso contare sul fatto che non lo fai?’ Io gli dissi: ‘No non puoi contare. Io lo faccio’. Dissi così perché al Csm, in forma anonima, per come io lo avevo ricevuto, secondo me era molto grave che girassero dei verbali, il cui contenuto che nei confronti di un consigliere a me appariva così palesemente calunnioso”. “Questo lo dico perché in quel momento anche Ermini e Salvi lo sapevano - ha ribadito Di Matteo al presidente Spanò -. Quindi Ermini lo sapeva, Salvi lo sapeva, Gigliotti, Cavanna, Cascini, Pepe, Marra, Morra lo sapevano. Io non mi sono pentito di aver fatto scoppiare quel ‘bubbone’”.
Infine, Di Matteo fa un’ulteriore precisazione alla Corte. “Il mio intervento in plenum è avvenuto il 28 aprile 2021 - ha detto -. Nessuno degli altri consiglieri del Csm mi chiese dopo la seduta plenaria, o nei gironi successivi, a che cosa mi riferissi o chi fosse il consigliere nei cui confronti io ipotizzavo una manovra di calunnia anche in danno dell’attività consigliare. Nessuno mi chiese nulla. Ardita, il 2 o il 3 maggio, chiese ad Ermini di poter parlare della questione in un incontro informale di tutti i componenti del Consiglio. In quell’incontro Ardita chiese se altri consiglieri avessero saputo. Ricordo che in quella circostanza ebbe risposta positiva sicuramente dalla consigliera Pepe e dai consiglieri Marra e Cascini (quartultimo che fece riferimento anche al fatto che le dichiarazioni su Ardita erano solo una parte delle dichiarazioni che aveva letto perché Davigo gliele aveva mostrate). E mi pare anche dal professore Gigliotti. Poi seppi da Ardita che anche il consigliere Cavanna gli aveva detto il giorno dopo che a sua volta era stato informato. Mezzo Csm e il Presidente della commissione parlamentare antimafia sapevano di queste dichiarazioni e avevano letto o comunque era stato loro reso noto il contenuto di queste dichiarazioni”.
Morra chiese di incontrare Ardita e Di Matteo per i verbali di Amara
Altra vicenda affrontata da Di Matteo durante la testimonianza è stato l’incontro tra lui, il consigliere Ardita e l’allora presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. “Venni a sapere in due momenti distinti due cose diverse - ha precisato Di Matteo alla Corte presieduta da Spanò -. In un primo momento Ardita mi disse che era stato cercato dall’allora presidente della commissione antimafia Nicola Morra che ci voleva parlare. Con il presidente Morra non avevo un rapporto di abituale frequentazione, avevamo un buon rapporto credo di stima reciproca e per questo motivo è venuto in qualche occasione al Csm, a parlare con me chiedendo quale fosse il mio parere su vicende che afferivano alla legislazione antimafia, su vicende di cui si occupava la Commissione parlamentare antimafia. Poi ero stato audito più volte dalla commissione. Era un rapporto legato a motivi istituzionali e mai un rapporto di frequentazione ulteriore. Tutto si verifica nei giorni successivi al mio intervento in plenum. Fino al mio intervento in plenum nessuno dice nulla. Dal mio intervento, nel giro di pochi giorni, viene Ardita nella mia stanza e mi dice: ‘C’è il presidente Morra che ci vuole parlare per un fatto relativo a questi verbali che lui ritiene importante’”. I tre si incontrano all’indomani mattina in un bar nel centro di Roma, prima dell’inizio dei lavori al Csm. In quell’occasione “Morra esordì dicendo di aver letto delle cose che sono state dette in plenum, dicendo ‘quei verbali li avevo visti anche io perché me li aveva fatti vedere Davigo nella tromba delle scale del Csm’. Io non dissi nulla - precisa il magistrato palermitano -. Gli dissi, confortato anche da Ardita, che quelle cose avrebbe dovuto dirle all'autorità giudiziaria e non a noi. Lui non ci disse assolutamente perché era andato a trovare Davigo, ma credo neanche al dottore Ardita. Ripeto, io al presidente Morra l'ho incontrato sempre da solo, mai con il consigliere Davigo o con il consigliere Ardita. Non so quali fossero i rapporti e perché intrattenessero i rapporti loro tre. Con me erano rapporti di natura istituzionale, legati a vicende di competenza della commissione parlamentare antimafia”. Di Matteo, inoltre, ha aggiunto di non sapere il motivo di tale incontro “anche perché “lo abbiamo troncato subito e il colloquio è finito con lui che diceva: ‘Sto andando a contattare il procuratore di Roma’”. Fonte: antimafiaduemila.com
All'udienza del processo che vede Davigo imputato per rivelazione del segreto d’ufficio ha deposto anche il consigliere uscente del Csm Cascini: "La procura di Milano doveva inviare quei verbali al Csm". Auditi anche Gigliotti, ex laico di Palazzo dei Marescialli, e l'ex presidente dell'Antimafia Nicola Morra.
La deposizione di Gigliotti – Oltre a Di Matteo hanno testimoniato due consiglieri uscenti del Csm, Fulvio Gigliotti e Giuseppe Cascini, l’ex senatore Nicola Morra. Gigliotti ha raccontato ai giudici che nell’estate 2020 l’ex pm di Mani pulite gli “riferì delle dichiarazioni di Amara su una presunta loggia denominata Ungheria di cui avrebbero fatto parte personaggi del mondo delle istituzioni, ecclesiastico e due componenti del Csm e mi raccomandò riservatezza. Mi disse che ne aveva parlato con altri consiglieri, Cascini e Marra, con il vice presidente Ermini e con il pg della Cassazione Salvi e che Ermini aveva informato il Quirinale” e quindi, “ho percepito fosse stato seguito anche un binario formale“. Il teste ha raccontato di quando venne a conoscenza dei verbali che Davigo gli mostrò: “Li sfogliai, ne lessi una decina di pagine” spiegandogli “che a noi non poteva essere opposto il segreto. Ma mi raccomandò riservatezza”. Gigliotti ha inoltre affermato di non aver percepito alcuna finalità nell’iniziativa di Davigo di informarlo delle dichiarazioni di Amara, “su cui convenimmo era necessario trovare riscontri, vere o false che fossero” . Gigliotti ha ripetuto più volte che Davigo gli disse che ai consiglieri del Csm non è opponibile il segreto, invitandolo però a non divulgare quelle informazioni. La stessa raccomandazione al ‘silenzio’ Davigo la fece anche al consigliere laico Stefano Cavanna citato pure lui nel processo. “Venni informato dell’inchiesta milanese che coinvolgeva molte personalità, tra cui Ardita e Mancinetti – ha detto Gigliotti – ma non ho mai visto i verbali. Davigo mi disse che era una cosa molto riservata e mi impose il silenzio. Io rispettai la consegna”. Davigo è imputato per rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali dell’ex legale esterno di Eni su cui ha chiuso le indagini chiedendo l’archiviazione la procura di Perugia perché le dichiarazioni dell’avvocato non hanno trovato nessun tipo di riscontro. A Davigo i verbali che gli erano stati consegnati nell’aprile di due anni fa dal pm milanese Paolo Storari, assolto anche in secondo grado, per autotutela da una presunta inerzia dei vertici del suo ufficio. Sul punto l’ex procuratore capo Francesco Greco è stato archiviato.
Cascini: “La procura di Milano doveva inviare le carte al Csm” – Cascini ha raccontato di aver parlato più di una volta con Davigo della vicenda, collocando la prima discussione sul caso tra la fine di aprile e i primi di maggio 2020 e che vide quei documenti. “Ritenni che il Procuratore di Milano, non trasmettendo al Consiglio, non stava facendo il suo dovere: non stava rispettando la circolare che prevede che atti di fatti di possibile rilievo a carico di magistrati devono essere trasmessi al Csmanche se c’è il segreto, a meno che ci siano particolari esigenze investigative. Notai che non erano firmati e che sembravano una copia stampata dal computer, ma non ricordo di aver letto in calce che erano secretati“. Secondo la deposizione di Cascini nei colloqui con Davigo i temi erano “i consigli chiesti da Storari che si trovava in difficoltà per via delle resistenze dei vertici della Procura” e “le preoccupazioni per il coinvolgimento” nei verbali di Amara “di due consiglieri del Csm”, già investito da uno “tsunami” per la vicenda Palamara. “Da un mio punto di vista la Procura di Milano doveva fare iscrizioni e atti di indagine e poi trasmettere al Csm. Dissi che Storari doveva avvertire il suo Procuratore, il quale doveva trasmettere al Csm”, ha detto. Secondo il teste, quella del pm Storari “era una richiesta di consiglio” come “tante volte anche a me è capitato di ricevere dai colleghi” più giovani e, quindi, “non era una cosa che mi sembrava anormale. Era una comunicazione informale di un collega” che non era stata “formalizzata” dal Csm, perché i verbali non furono mai “trasmessi ufficialmente” al Csm, sebbene furono informati i vertici, ma non venne fatta e depositata all’ufficio di presidenza una relazione scritta“. Per Cascini, che ha coordinato come aggiunto a Roma una indagine a carico di Amara, quanto aveva raccontato ai pm di Milano “faceva tremare i polsi, ma la narrazione non era solida. La prima percezione è che si trattasse di un mischio di verità e finzione e quindi, il mio parere di pubblico ministero, è che bisognava fare indagini”.
Morra: “Consulenza ad Ardita naufragata dopo aver parlato con Ardita” –Oggi ha testimoniato anche l’ex senatore M5S Nicola Morra che ha raccontato come la prospettiva di nominare il consigliere del Csm uscente, Sebastiano Ardita, come consulente in qualche attività della commissione parlamentare antimafia è ‘naufragata‘ dopo aver saputo da Piercamillo Davigo che c’era il sospetto facesse parte “di una associazione che imponeva il vincolo della segretezza”. Per il caso Ardita è parte civile, ritenendosi danneggiato dalla diffusione di quelle notizie ritenute infondate. I verbali di Amara finirono sotto forma anonima infatti a diverse testate giornalistiche, comprese il FattoQuotidiano, che non pubblicarono i verbali apocrifi ma denunciarono il caso agli inquirenti. Per questo era finita sotto indagine Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo al Csm, per cui il gup di Roma ha disposto ulteriori indagini accogliendo la richiesta della difesa. Morra ha spiegato di essersi recato in ufficio da Davigo nell’estate del 2020 per cercare di “ricomporre la frattura” tra Ardita e Morra “ai fini del lavoro della commissione che presiedevo. Mi ha invitato a seguirlo, dopo aver preso un faldone, sulla tromba delle scale. Vidi un foglio in cui lessi il nome di Ardita. E mi disse che faceva parte di un’associazione segreta di cui aveva parlato un dichiarante a una procura del Nord. Quindi, su mia domanda, mi suggerì non di rompere i rapporti ma di usare prudenza”. “Credo che il rifiuto di riallacciare i rapporti con Ardita fosse dovuto a queste dichiarazioni – ha aggiunto – e che mi avesse fornito questo dato al fine di evitare imprudenze”. Quindi l’ipotesi di una nomina di Ardita per qualche attività della commissione parlamentare” non è più diventata realtà”.