27 Settembre 2021 Attualità

ESCLUSIVA: MAFIA A MILAZZO. LA BAIA DI SANT’ANTONIO E’ LA BAIA DI DON SARO

di Antonio Mazzeo - Si racconta che nel gennaio del 1221 una nave proveniente dal Marocco e diretta in Portogallo fu sospinta da una tempesta verso le coste della Sicilia orientale, naufragando poi tra i comuni di Tusa e Caronia. Tra i passeggeri c’erano alcuni frati francescani tra cui il missionario portoghese Fernando Martins de Bulhões. Riuscì miracolosamente a salvarsi e raggiunto a cavallo lo straordinario promontorio di Capo Milazzo, trovò riparo per qualche giorno in una piccola grotta. Il frate, dopo la sua morte il 13 giugno 1231, è stato canonizzato santo e oggi è noto e venerato in tutto il mondo con il nome di Antonio da Padova. Tre secoli dopo un eremita collocò un’immagine del santo all’interno della grotta di Capo Milazzo, trasformandola in luogo di culto; alla fine del XVII secolo fu realizzata una chiesetta decorata con marmi policromi e bassorilievi. Da allora è meta di pellegrinaggi e ambito luogo per le celebrazioni dei matrimoni. L’antistante insenatura dai colori verde e turchese è nota in mezzo mondo come baia di sant’Antonio e con l’antica chiesetta, la lunga spiaggia e le scogliere a strapiombo offre un panorama mozzafiato sulle sette isole Eolie e sui tramonti del Tirreno. Per la sua straordinaria bellezza e il valore paesaggistico-naturale, ai sensi delle direttive comunitarie il Capo Milazzo è Zona di protezione speciale (Zps) ed è inserito nella rete Natura 2000. Dal marzo 2019 il promontorio è “Area marina protetta” e la baia di sant’Antonio rientra in zona B: c’è il divieto di svolgere la pesca subacquea e usare l’acquascooter, ma è ancora permesso l’ormeggio, il “trasporto passeggeri” e, con alcune limitazioni, la navigazione a motore, l’ancoraggio e la “pesca ricreativa e sportiva”. Gli ambientalisti chiedevano vincoli più rigidi per preservare uno dei beni comuni più importanti di tutta l’Isola. Le pressioni e gli interessi per monetizzare baia e Capo sono però molteplici e da tempi remoti, così alla fine è prevalsa la scelta soft che però scontenta tutti, strenui difensori del capolavoro natura e proprietari di gommoni e barche a vela.

Chi guarda al paradiso di baia e promontorio non immagina certo che una parte dei terreni e degli immobili, alcuni di importante valore storico-architettonico, siano in mano a privati. E sarebbero in mano ai privati pure i resti dell’antica tonnarella sulla spiaggia di sant’Antonio, così come la vicina torretta ottagonale di fine ottocento e la torre saracena, presumibilmente utilizzata nel medioevo per fini d’avvistamento. Ma resterebbero sicuramente attoniti e basiti tutti quei turisti, italiani e stranieri, che venissero a scoprire che il comproprietario di tanta impareggiabile bellezza è uno dei più noti e controversi personaggi della storia criminale dell’Isola e del continente, uomo-cerniera tra mafia, massoneria, servizi segreti, eversione di estrema destra e apparati istituzionali impropriamente deviati.

E qui comando io!

Si racconta che quest’estate il pluripregiudicato avvocato Rosario Pio Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto si sarebbe presentato negli uffici dell’Area marina protetta di Capo Milazzo e della Fondazione Barone Giuseppe Lucifero di S. Nicolò (istituzione pubblica di assistenza e beneficienza titolare di vasti appezzamenti del promontorio) per chiedere l’autorizzazione ad attraversare il sentiero che percorre la baia di sant’Antonio, attualmente interdetto per le frane del costone roccioso. Il Cattafi avrebbe spiegato di essere il legittimo proprietario di una parte dei terreni sottostanti il santuario e di dover effettuare un sopralluogo con alcuni tecnici all’antica torre saracena. “Anche la torre è di mia proprietà” avrebbe spiegato agli increduli interlocutori.

Il capo dei capi - così lo hanno soprannominato i magistrati della direzione distrettuale antimafia - è il capo della baia di sant’Antonio e vuole restaurarne gli immobili? Sembra davvero una delle tante leggende di una provincia dove ancora in tanti ritengono che la mafia non esiste ma che però attribuiscono ai mafiosi onnipotenza e onniscienza. Una visura per immobili presso l’Agenzia delle entrate cancella dubbi e incertezze. Secondo la nota di trascrizione effettuata il 2 novembre 2020, la proprietà di quattro particelle di terreno “a pascolo” per 4,59 ettari nel promontorio di Capo Milazzo appartiene in parti uguali all’avvocato Cattafi e a un’ultranovantenne originaria del comune di Merì ma residente a Barcellona Pozzo di Gotto, la signora Mattia Gitto. A sancire la contitolarità una sentenza del tribunale della città del Longano del 20 giugno 2002, quasi vent’anni fa; a pronunciarla un giudice onorario, l’avvocato Egisto Antonino Paratore.

La sentenza poneva fine a una causa civile tra il pluripregiudicato Cattafi e la stessa Mattia Gitto, il primo rappresentato processualmente dal noto legale messinese Antonio Giuffrida, la seconda dall’avv. Bruno Bagnato. Oggetto della contesa l’indisponibilità della donna a riconoscere la validità e gli effetti di un presunto accordo sottoscritto con il Cattafi in vista dell’acquisto degli immobili della baia di sant’Antonio. Il dispositivo della sentenza fornisce utili elementi per comprendere la rilevanza degli interessi economici in gioco. “Il Cattafi con atto extragiudiziale del 18 novembre 1988 aveva comunicato alla Gitto l’intendimento di ottenere in suo favore il trasferimento della metà del terreno per il quale è sorta la lite e a tal fine la invitava a comparire il 22 dicembre 1988 presso il notaio Salvatore Cutrupia di Barcellona P.G. per procedere alla stipula dell’atto pubblico”, riporta la sentenza. “Cattafi  conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Messina la Gitto, chiedendone la condanna al risarcimento di tutti i danni consequenziali alla mancata disponibilità dell’immobile e altresì, previo accertamento dell’autenticità delle sottoscrizioni apposte in calce alla scrittura privata dell’1 aprile 1988, che venisse emessa una sentenza per trasferire allo stesso la metà indivisa dell’appezzamento sito in Milazzo, contrada Sant’Antonio, con entrostanti tre piccoli fabbricati, con annessi, pertinenze e dipendenze, riportato in catasto alla pag. 10765, foglio 1 particelle 12-15-18 e 20”.

Non avendo ottenuto risposta, con raccomandata del 28 luglio 1988 e successiva missiva del 12 settembre, Rosario Pio Cattafi intimò la Gitto “di procedere al trasferimento dell’appezzamento di terreno in atto solo alla stessa intestato”. Al processo iniziato il 20 febbraio 1989, Mattia Gitto chiese il rigetto della domanda o in caso contrario, di disporre il trasferimento della proprietà in ragione di un terzo e non della metà come richiesto. Sempre secondo la Gitto, la dichiarazione sottoscritta l’1 aprile 1988 doveva ritenersi nulla e priva di effetti giuridici in quanto “tra la stessa ed il Cattafi non è intercorso accordo alcuno né convenzione di alcun genere e che non è stata versata in suo favore somma alcuna, nonché che la vicenda era stata seguita dal fratello Francesco Gitto e che solo dopo la sua morte, avvenuta il 14 dicembre 1987, il Cattafi assumeva di avere diritto alla metà del bene in questione, di avere pagato la metà del valore e delle somme occorse per l’acquisto e che solo a seguito di queste sue assunzioni veniva sottoscritta la scrittura, per altro predisposta”. La signora Mattia Gitto sostenne che gli accordi intercorsi tra il fratello Francesco e Rosario Pio Cattafi “erano ben diversi da come prospettati dall’attore e precisamente che questi aveva partecipato alle spese di acquisto solo in ragione di un terzo”.

Prestiti, triangolazioni e allevamenti di pesci

Successivamente la causa fu cancellata dal ruolo a seguito dell’istituzione del Tribunale di Barcellona, dove fu riassunta ancora su richiesta del Cattafi con atto del 20 agosto 1992. Fallito un primo tentativo di riconciliazione, il 10 ottobre 2001 la causa venne assegnata a sentenza. Alla fine il giudice accolse le richieste del Cattafi. “Dall’interrogatorio formale reso dall’attore è emerso che effettivamente i rapporti relativi all’operazione di acquisto per aggiudicazione di asta fallimentare del terreno intercorsero col sig. Francesco Gitto, ma è emerso altresì che il bene venne intestato alla sig.ra Mattia Gitto per ragioni di convenienza fiscale in quanto la stessa era coltivatrice diretta”, scrive il giudice onorario Egisto Antonino Paratore. “Dalle dichiarazioni rese dai testi escussi è emerso, tra l’altro, che del terreno in questione il Cattafi e il Gitto Francesco si consideravano comproprietari in ragione della metà ciascuno; che più volte gli stessi hanno discusso, anche in presenza della Gitto Mattia, del programmato impianto di itticoltura da realizzare nel terreno in questione; che la Gitto Mattia, senza nulla osservare, consegnava al Cattafi la scrittura privata debitamente sottoscritta e ciò sta a dimostrare la veridicità della dichiarazione resa dallo stesso Cattafi in sede di interrogatorio secondo la quale Io mi recai l’indomani pomeriggio, insieme al mio amico Michele Petretta. In presenza dello stesso io e la Gitto abbiamo sottoscritto la dichiarazione di comproprietà”. Sempre secondo il giudice “la sottoscrizione e la consegna di uno dei due esemplari della scrittura privata al Cattafi è desumibile sia avvenuta dopo che, su consiglio del di lei nipote, la Cattafi si era consultata col proprio legale”.

“E’ emerso altresì (teste Gitto Giuseppe, nipote della Mattia) che 'la sig.ra Gitto venne a sapere successivamente che il Cattafi era partecipe del rapporto solo nella misura della terza parte e che aveva versato somme in ragione della metà. Anche questa circostanza mi venne riferita dalla Gitto Mattia. Ora appare veramente strano se non addirittura inverosimile che il Cattafi avesse versato somme in ragione della metà per diventare poi comproprietario dell’acquistato terreno in ragione di un terzo”, si legge ancora nella sentenza. “Sia dalle deposizioni rese dai testi escussi che di documenti agli atti è emersa la prova che il Cattafi rilasciò degli effetti cambiari al Gitto Francesco per reperire il liquido, previo sconto bancario, affinché la Gitto Mattia potesse concorrere ed aggiudicarsi il bene in questione e che alla luce degli accordi intercorsi il Gitto stesso ebbe a restituire all’anticipatario Cattafi la metà del versato, tant’è che la Gitto Mattia sottoscriveva liberamente, dopo avere presumibilmente preso parere dal suo legale di fiducia, la scrittura privata dell’1 aprile 1988, con la quale dichiarava e riconosceva, tra l’altro, di aver al tempo partecipato anche in nome e per conto del sig. Cattafi e conseguentemente l’aggiudicazione, il trasferimento e la proprietà dell’immobile sono da intendere effettuate a nome della sottoscritta e del Cattafi in ragione della metà per ciascuno, nonché di trasferire al sig. Rosario Cattafi e/o alla persona che questi indicherà, la metà indivisa del fondo…. Riconosceva altresì la sig.ra Gitto che nessun corrispettivo resta a lei dovuto avendo il Cattafi al tempo integralmente provveduto al versamento di quanto di sua quota e spettanza”. Insomma, inizialmente tutti i soldi per l’operazione sarebbero stati messi dal pregiudicato Cattafi; lo stesso si sarebbe riservato di attribuire la titolarità della propria parte a uno o più soggetti terzi.

Alla luce del certificato di destinazione urbanistica degli immobili rilasciato dal Comune di Milazzo il 21 aprile 1988 e prodotto in sede processuale da Mattia Gitto, i protagonisti dell’affaire non potevano non sapere che tutti i terreni ricadevano in zona sottoposta a vincolo paesaggistico. Così sembrerebbe credibile che l’unico progetto a cui aspiravano Cattafi, i Gitto e tale Michele Petretta potesse riguardare l’allevamento di pesce nella baia ed eventualmente la sua commercializzazione. Ma allora perché è stata protratta allo stremo la diatriba giudiziaria tra le parti e soprattutto perché si è pensato a un meccanismo di finanziamento e acquisto così tortuoso e farraginoso? E perché mai proprio oggi l’avvocato barcellonese scende personalmente in campo per mettere in sicurezza ruderi abbandonati da decenni, nonostante i vincoli ancora più stringenti a tutela della baia di sant’Antonio e del Capo?

Il principe nero del Longano

Su Rosario Pio Cattafi sono stati scritti faldoni di documenti giudiziari, centinaia di articoli e inchieste giornalistiche (Il principe nero del duemila lo ha definito la rivista antimafia I Siciliani), un report (La peggio gioventù a firma dell’avvocato Fabio Repici), finanche un libro-dossier biografico pubblicato dal Movimento Agende Rosse di Salvatore Borsellino. Il suo nome lo s’incrocia nelle vicende più oscure e nelle inchieste giudiziarie più inquietanti degli ultimi 50 anni: le scorribande neofasciste nell’Università di Messina nei primi anni ’70; i traffici di droga delle cellule criminali siciliane e calabresi in trasferta a Milano con sede nell’autoparco di Via Salomone (primi anni ’80); la penetrazione mafiosa nei casinò del nord Italia e il conseguente omicidio del procuratore di Torino, Bruno Caccia; i traffici d’armi a favore di paesi sotto embargo promossi da grandi holding industriali italiane e da imprenditori in odor di mafia (primi anni ’90); la “presunta” connection tra massopiduisti, neofascisti e boss mafiosi – i cosiddetti Sistemi Criminali – in vista delle stragi del biennio 1992-93 e di un’auspicata secessione del sud Italia; il comando e il controllo di una delle più potenti e violente cosche siciliane, la “famiglia” barcellonese, in grado d’infiltrasi negli apparati istituzionali e nella gestione degli enti locali; l’efferato omicidio a Viterbo dell’urologo Attilio Manca, l’11 febbraio 2004, ecc..

Nei confronti di Rosario Pio Cattafi nel dicembre 2011 il Tribunale di Messina, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, ha emesso un decreto di sequestro dei beni per svariati milioni, tra cui una società, la Dibeca Sas, interessata alla realizzazione di un maxi-parco commerciale a Barcellona Pozzo di Gotto (progetto in freezer dopo la campagna stampa de I Siciliani e un esposto all’autorità giudiziaria dell’Associazione antimafie “Rita Atria”). “Il Cattafi è stato sottoposto alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di Pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno, per la durata di anni cinque, in quanto ritenuto inserito a pieno titolo, in una posizione di preminenza rispetto a quella dei semplici affiliati, in alcune organizzazioni criminali di tipo mafioso, quali la famiglia di Benedetto Santapaola e la famiglia di Barcellona PG”, si legge nel decreto di sequestro. Il provvedimento è stato però revocato dal tribunale peloritano nel marzo 2013; otto mesi prima (luglio 2012) Cattafi era stato arrestato con l’accusa di essere il dominus incontrastato delle cosche del messinese (inchiesta Gotha 3).

E’ nell’ambito di quest’ultimo procedimento che sono riemersi atti d’indagine risalenti a vent’anni prima che s’incrociano però con la compravendita dei terreni di baia sant’Antonio a Capo Milazzo. In particolare durante il processo d’appello Gotha 3, sono stati prodotti i verbali con le dichiarazioni che Rosario Pio Cattafi aveva reso ai magistrati che indagavano sul sequestro di persona dell’industriale Giuseppe Agrati, avvenuto a Milano nel gennaio 1975. La vittima fu rilasciata dopo il pagamento di un riscatto di due miliardi e mezzo di vecchie lire. “Le dichiarazioni dell’avvocato Cattafi, rese da imputato nell’inchiesta, dimostrano oltre a conclamati rapporti con esponenti di primo piano della criminalità organizzata catanese e meneghina, gli interessi economici del tutto inediti per alcune operazioni immobiliari portate avanti da mafiosi di Barcellona”, scrive il giornalista Leonardo Orlando (Gazzetta del Sud). “Pezzi da 90 del calibro di Girolamo Mommo Petretta e Francesco Ciccio Rugolo che, per l’occasione, fiutando la possibilità di favorire una speculazione immobiliare, a metà degli anni Ottanta erano persino sbarcati in coppia a Milano”. L’affare che vedeva mediatori i due patriarchi della mafia barcellonese verteva proprio sulla disponibilità degli ambiti terreni della di baia di sant’Antonio a Capo Milazzo.

“Io ho conosciuto Gianfranco Ginocchi nel 1973, quando avevo 22 anni, in Sicilia, a Taormina, anzi più precisamente a Nizza, ove vi era un cantiere presso il quale era in costruzione un grosso peschereccio commissionato dal Ginocchi”, ha dichiarato Cattafi nell’interrogatorio del 27 settembre 1984, presenti il giudice istruttore Paolo Arbasino e il Pm Francesco Di Maggio. “Furono due marinai a nome Carmelo Russo e Giovanni Maiorana a presentarmi il Ginocchi. Con questi si instaurò quindi un rapporto d’amicizia e io lo ospitai 3-4 giorni a Barcellona a casa mia. In pratica Ginocchi mi incaricò di seguire i lavori di costruzione del peschereccio promettendomi anche un compenso di 10 milioni all’anno (…) Quando mi sposai a Roma il 5 marzo 1975, il Ginocchi mi mise a disposizione il suo attico a San Lorenzo e mi raggiunse per il fine settimana con una sua amica. In quell’occasione io andai con lui e le due donne al casinò Ruhl di Nizza del quale lui mi disse essere comproprietario. Poi quando ebbi un figlio il Ginocchi fece da padrino, tanto buoni erano allora i nostri rapporti…”.

“Rammento che una volta Gianfranco Ginocchi all’uscita dal ristorante Le Asse di Milano ebbe a presentarmi due persone a nome Cosimo Murianni e Federico Corniglia”, ha aggiunto Cattafi. “Ginocchi ebbe anche a precisarmi che il Murianni gli aveva promesso un prestito qualora lui si fosse prestato ad una operazione di titoli falsi. Effettivamente sono al corrente del fatto che il Ginocchi avesse in progetto di realizzare un insediamento turistico a Milazzo. Fui io che venni incaricato di metterlo in contatto con il proprietario della baia di sant’Antonio, tale Rizzitano. Preciso al riguardo che io mi limitai a favorire l’incontro mentre fu il Ginocchi a cercare direttamente l’acquisto del terreno, o meglio non sono al corrente dell’assetto dell’operazione e la mia impressione fu che il Ginocchi cercasse di rappresentare una grossa operazione economica per coprire la situazione deficitaria della Royal. Io non conobbi personalmente il Rizzitano ma a lui pervenni tramite Francesco Gitto che è cugino del Governatore di New York, anzi, preciso, cugino della moglie”.

Ecco allora di nuovo il nome di Francesco Gitto e quello di una new entry, Gianfranco Ginocchi, agente di cambio con importanti relazioni con gli istituti di credito svizzeri, assassinato il 15 dicembre 1978. Secondo gli inquirenti Ginocchi era interessato a due società finanziarie, la Royal Italia S.p.a. e l’Euro management Italia S.p.a. - International Selective, i cui nomi erano emersi nell’ambito delle indagini sull’omicidio di un altro boss del firmamento di Cosa nostra, Giuseppe Di Cristina, eseguito a Palermo il 30 maggio 1978. Al momento della morte, Di Cristina era in possesso di due assegni circolari di 10 milioni di lire ciascuno che erano stati negoziati sul conto corrente delle predette società assieme ad una partita di altri assegni circolari per un importo complessivo di tre miliardi di lire. L’allora giudice di Palermo, Giovanni Falcone, appurò che il denaro proveniva da un vasto traffico di droga svolto tra Malta, la Sicilia e gli Stati Uniti d’America dal gruppo mafioso Inzerillo–Spatola-Bontate.

Dal fascicolo del procedimento per il sequestro Agrati è emerso anche il verbale di sommarie informazioni testimoniali dell’avvocato Roberto Garufi in cui è riservato un passaggio proprio alla speculazione di Capo Milazzo. “Mi sembra che nel 1974 il Ginocchi iniziò un’operazione immobiliare acquistando un fondo nella baia di sant’Antonio a Milazzo”, ha dichiarato Garufi. “Mi sembra che tale fondo gli fu segnalato dai suoi marinai e dal Cattafi, il quale anzi a quel che mi risulta chiese la mediazione di 36 milioni di lire per la segnalazione di tale affare, mediazione che non gli fu mai pagata. Ho conosciuto a casa di Ginocchi tale Francesco Rugolo detto Ciccio, di origine siciliana. Costui era un individuo proprietario di un fondo o così mi pare in Sicilia, mi sembra fu presentato al Ginocchi dai suoi marinai, per cui il Ginocchi trattò l’acquisto del fondo in questione, prima della baia di sant’Antonio. ll Rugolo era originario di un paese vicino a Barcellona”.

Ed un ulteriore riscontro sugli interessi del gruppo siculo-meneghino nel capoluogo mamertino è giunto da Federico Corniglia, uno dei due uomini che Rosario Cattafi ebbe modo di conoscere a Milano in compagnia di Ginocchi. Interrogato nel dicembre 1997 dai pubblici ministeri Alberto Nobili e Antonio Ingroia, Corniglia ha ammesso di essere entrato in contatto con numerosi esponenti della mafia siciliana, tra cui il boss palermitano Stefano Bontate, il principe di Villagrazia legato a importanti settori della politica e dell’economia italiana, anch’egli assassinato (per mano dei Corleonesi) nell’aprile 1981. “A Bontate consegnai due false carte d’identità svizzere”, ha raccontato Corniglia. “In quella stessa occasione notai che il Bontate era in compagnia di uno studente di Barcellona che si chiamava Saro Cattafi. Era un uomo di fiducia del mafioso palermitano, tanto che si occupò di gestire in qualche modo, un grosso debito che tale Gianfranco Ginocchi aveva contratto nei confronti di quel capo mafia. Ginocchi aveva gli uffici in via Cardinal Federico, proprio alle spalle della Borsa. Cattafi addirittura, si installò a casa di questo Ginocchi perché doveva una cifra a Bontate. Non poteva assolvere però a questo debito e lui era proprietario di una terra edificabile nel comune di Milazzo, dove adesso è stato edificato un grande albergo, e gli cedettero questa terra, cioè sotto minacce, ma proprio fu l’uomo che fu mandato… Il Cattafi era uno di quei soggetti che ho visto poi arrivare delle volte col denaro, nel senso che aveva il compito specifico di trasferire materialmente i soldi all’estero; si trattava, in sostanza, di uno spallone”.

La tragica morte del patriarca

Nel corso del processo civile nel tribunale barcellonese per determinare l’effettiva titolarità dei terreni della baia di sant’Antonio, sia Rosario Cattafi che la signora Mattia Gitto hanno ammesso la compartecipazione all’affaire di Francesco Gitto, fratello di quest’ultima. Nella sentenza non viene specificato altro sulla sua identità, tranne la data di morte, il 14 dicembre 1987. Giorno maledetto quello, uno dei più violenti della storia criminale dell’intera provincia di Messina. Un gruppo di fuoco guidato dal boss Giuseppe “Pino” Chiofalo assassinò quattro persone in due comuni diversi e a poche ore di distanza: le prime due a Barcellona, gli altri due a Falcone, Saverio e Giuseppe Squadrito (rispettivamente padre e figlio). Le vittime barcellonesi furono il commerciante Francesco Gitto e un suo dipendente, Natale Lavorini; vennero freddati all’interno di un negozio in pieno centro. Francesco Gitto, fratello di Mattia e socio di Rosario Cattafi per i terreni di Capo Milazzo, è un altro illustre patriarca della criminalità barcellonese. “Egli era un notissimo imprenditore, possedendo negozi di abbigliamento a Barcellona, Messina, Trapani e Marsala”, scrivono i magistrati. “Gitto era dirigente della squadra di calcio Nuova Igea di Barcellona ed aveva interessi immobiliari, tanto da essere proprietario del palazzo in cui era ospitata la locale Compagnia dei Carabinieri. Inoltre era cugino acquisito dell’ex governatore di New York Mario Cuomo”. Sempre secondo gli inquirenti, il commerciante era un soggetto particolarmente vicino ai “barcellonesi” e ai Santapaola di Catania. “Francesco Gitto aveva cointeressenze nel campo dei lavori pubblici, come può desumersi dalla circostanza del rinvenimento, fra le sua carte, di inviti rivolti alle imprese Cappellano Carmelo e Caliri Salvatore di Terme Vigliatore per partecipare alla costruzione della rete idrica di Carlentini”. Con mafiosi del calibro di Petretta, Rugolo e Iannello erano stati avviati invece diversi investimenti edilizi.

Giuseppe “Pino” Chiofalo, divenuto collaboratore di giustizia, ha spiegato le ragioni per cui decretò ed eseguì personalmente l’omicidio del commerciante. “Francesco Gitto era un vero autorevole referente dei palermitani; Carmelo Coppolino mi riferì che egli aveva nel tempo aumentato il suo prestigio a causa dell’intensificazione dei suoi rapporti con esponenti di Cosa Nostra e mi fece pure il nome di Mariano Agate”, ha dichiarato Chiofalo. “So  anche che il Gitto aveva avviato alcune attività economiche nel paese di origine di Agate, nel trapanese, realizzando un supermercato o un negozio. Il Coppolino disse altresì che il Gitto aveva stabilito rapporti con il gruppo di Benedetto Santapaola e soprattutto era riuscito ad intessere buoni collegamenti con personaggi importanti del mondo politico, sia a Roma che a Messina. Nelle sue proprietà di Barcellona avevano perfino costruito una Caserma con l’approvazione del Ministero dell’Interno. Gitto era riuscito ad avere attivi contatti anche con esponenti dei vertici della magistratura e ciò era stato per lui nota e motivo di forza e di carisma. In questo quadro non privo di importanza fu il rapporto di parentela che lo legava al Governatore statunitense Mario Cuomo. Di fronte a situazioni come quelle descritte il Coppolino non fu in condizione di ostacolare l’inserimento a Barcellona di Cosa Nostra palermitana”.

Sempre secondo Chiofalo, Francesco Gitto avrebbe trafficato in stupefacenti. “Con l’apporto del Gitto, i palermitani avevano impiantato in un terreno di sua proprietà una raffineria di eroina che fu poi smantellata in previsione del mio ritorno a Barcellona”, ha aggiunto. “In tali attività i palermitani vennero coadiuvati da alcuni pregiudicati barcellonesi (…) I suddetti operavano su precise direttive del Coppolino che con il Gitto e il Petretta erano i veri punti di riferimento per Cosa Nostra palermitana. Tra coloro che erano addetti alla raffinazione vi era il noto Francesco Marino Mannoia. Per giustificare la presenza di quelle persone, Francesco Gitto inviava sul luogo il proprio nipote Giuseppe Gitto che vi sostava quasi in permanenza. La droga raffinata veniva poi trasferita in un’area prossima a Patti, dove veniva imbarcata a bordo di un peschereccio ancorato al largo e quindi avviata a Palermo. Il Coppolino affermò che Gitto ambiva transitare tra le nostre fila ma non rientrava nei suoi propositi quello di interrompere i rapporti con i palermitani e con Santapaola. Ciò indusse noi tutti a deliberare la sua eliminazione e questo non perché avessimo un qualcosa di personale nei suoi confronti, quanto e solamente perché attraverso il Gitto i palermitani ed i catanesi costituivano un ostacolo alla pratica attuazione del nostro programma che aveva finalità esclusivamente economiche. Tutto questo in riferimento anche al fatto che il Santapaola era interessato alla realizzazione della grande opera ferroviaria e delle attività connesse non solo perché tutore delle imprese Graci, Costanzo, Rendo e di altre grosse unità imprenditoriali del catanese, ma perché nelle attività di dette imprese egli aveva fatto confluire denaro proprio”.

Quegli assegni in tasca al morto

Nel corso dell’inchiesta antimafia Gotha 3 gli inquirenti hanno evidenziato un altro importante elemento di collegamento tra Francesco Gitto e Rosario Pio Cattafi. “Subito dopo il grave fatto di sangue veniva rinvenuto sul cadavere del Gitto un assegno dell’importo di 24 milioni di lire rilasciato proprio da Rosario Cattafi in favore della vittima; l’assegno veniva sequestrato”, scrivono gli inquirenti. “Nella sentenza del processo Mare Nostrum si ribadiva, fra l’altro, che il Cattafi era all’epoca indagato per associazione mafiosa a Milano, indicato poi dal Chiofalo come uomo di onore, circostanza ribadita da Luigi Sparacio e altri collaboratori”.

Al processo Gotha3 l’avvocato Rosario Pio Cattafi è stato condannato a 12 anni in primo grado, ridotti a 7 in appello perché per i giudici è stata provata la sua mafiosità soltanto fino all’anno 2000. A marzo 2017 l’ennesimo colpo di scena: la Corte di Cassazione ha disposto un nuovo processo perché Cattafi è stato ritenuto partecipe all’associazione mafiosa barcellonese solo fino al 1993. Il giudizio è stato rinviato alla Corte d’Appello di Reggio Calabria per gli anni compresi tra il 1993 e il 2000, mentre è giunta l’assoluzione per gli anni tra il 2000 e il 2012. Dopo un incomprensibile ritardo il nuovo processo è iniziato a Reggio e qualche mese fa il sostituto procuratore generale di Cassazione Giuseppe Adornato ha chiesto l’assoluzione di Cattafi e il “non doversi procedere per estinzione per prescrizione” del reato di associazione mafiosa “perché si ritiene che la prova di partecipazione dell’imputato alla cosca è dipesa prevalentemente dal rapporto privilegiato e personale che egli aveva con Giuseppe Gullotti”, mentre per gli anni successivi al suo arresto non sarebbero emersi “elementi probatori adeguati a comprovare una condotta specifica”.

L’avvocato Fabio Repici, difensore dell’Associazione nazionale familiari vittime della mafia, parte civile nel procedimento, ha invece chiesto la condanna dell’imputato. “E’ assolutamente peculiare il ruolo di Rosario Pio Cattafi e della famiglia mafiosa barcellonese di Cosa Nostra, della quale egli è esponente”, ha affermato il legale. “Peculiarità che depone, però, non nel malinteso senso di esponente quasi di rango minore la cui pericolosità risiedeva nella sua vicinanza al solo boss Giuseppe Gullotti, ma di soggetto la cui enorme pericolosità è certificata dalla richiesta della Procura generale”.

Nelle sue conclusioni l’avvocato Repici ricorda che la DDA di Palermo aveva informato il Procuratore generale delle risultanze di una relazione di servizio redatta da un appartenente alla polizia penitenziaria, Cosimo Chiloiro, secondo cui l’allora detenuto Salvatore Riina - in occasione di un’udienza del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia che era in corso davanti alla Corte d’Assise di Palermo - “ha mostrato di ben conoscere il Cattafi, chiamandolo Zio Saro e definendolo un trafficante di armi”.

“Il capo assoluto di Cosa Nostra – aggiungeva l’avv. Repici - dimostrava pertanto di ben conoscere Cattafi e di appellarlo con incredibile ossequio Zio Saro, locuzione il cui significato in contesto di mafia è oltremodo chiaro e insuscettibile di interpretazione alternativa, cioè di criminale mafioso di livello apicale perfino a fronte di colui che per oltre un decennio è stato il capo incontrastato dell’intera Cosa Nostra”.

La conclusione e la sentenza dell’inverosimile processo di Reggio Calabria contro Rosario Pio Cattafi sono attese nei prossimi giorni.