Ponte, respinta la class action di 104 cittadini: «I ricorrenti hanno prospettato il pregiudizio in termini del tutto evanescenti ed ipotetici»
Si è trattato di una iniziativa giudiziale «prematura», in cui «i ricorrenti hanno prospettato il pregiudizio in termini del tutto evanescenti ed ipotetici».
In una situazione oggettiva in cui si è «... non solo in assenza di alcun effettivo danno ambientale che si sia iniziato a produrre in conseguenza di una condotta illecita, ma addirittura senza che il pregiudizio all’ambiente sia stato prospettato come imminente, non potendo dubitarsi che per la configurazione quantomeno potenziale dovrà quantomeno attendersi il completamento dell’iter procedimentale».
Sono probabilmente questi i punti-chiave della sentenza del Tribunale delle imprese di Roma, la XVII sezione civile, che ha dichiarato inammissibile il ricorso di 104 cittadini che avevano mosso una cosiddetta azione inibitoria collettiva, che è cosa diversa da una class action, contro la società Stretto di Messina Spa, ritenendo che la costruzione del ponte sullo Stretto potesse causare un enorme impatto e danni ambientali.
La differenza sostanziale tra azione inibitoria collettiva e class action è sostanzialmente una: la prima ha una valenza ex ante, la seconda invece è sostanzialmente legata ad una tutela ex post, rispetto al verificarsi di un determinato fatto.
Con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso i giudici hanno poi compensato le spese di giudizio quanto al rapporto processuale tra i ricorrenti e i terzi intervenuti. E hanno poi condannato i ricorrenti al pagamento, in favore della Stretto di Messina Spa, al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in 238.143 euro per compensi professionali, somma che è destinata a lievitare per i cosiddetti “oneri di legge”. Si tratta di più di 2300 euro a testa. Quanto ai “pro Ponte”, il loro intervento è stato dichiarato inammissibile.
La richiesta dei 104 cittadini era in sintesi quella di accertare «la responsabilità della società e il danno ingiusto causato per la violazione del dovere di diligenza, correttezza e buona fe de proseguendo nell’attività per la realizzazione del ponte sullo Stretto, nonostante l’opera non abbia alcun reale interesse strategico e non è fattibile sotto i profili ambientali, strutturali ed economici».
Il motivo dominante della sentenza di rigetto, di cui è estensore il giudice Luigi D’Alessandro, che ha composto il collegio insieme alla presidente Claudia Pedrelli e alla collega Daniela Cavaliere, è che sostanzialmente non esiste ancora un progetto definitivo della grande opera infrastrutturale, e i cantieri non sono stati ancora aperti.
In questa azione inibitoria collettiva, scrivono tra l’altro i giudici in sentenza, si è messo in evidenza un concetto di ambiente non come “bene pubblico”, ma un concetto di bene “più personalizzato”, «la cui lesione - scrivono -, comporta un’offesa della persona umana nella sua dimensione individuale e sociale, e determina un vulnus al diritto di ciascun individuo al corretto e armonico sviluppo della propria personalità in ambiente salubre».
I giudici spiegano cioé che il profilo giuridico ambientale da tenere in considerazione nella causa ha un ambito per così dire “privatistico” e non “pubblicistico”. E scrivono: «... in altri termini, la condizione fattuale soggettiva legittimante l’esercizio della qui proposta azione inibitoria collettiva a tutela del diritto ad un ambiente salubre è quella di risiedere o dimorare nei luoghi coinvolti dalla costruzione del ponte, o comunque di avere in questi luoghi specifici interessi che potrebbero subire un diretto nocumento per effetto del danno ambientale eventualmente derivante dalla realizzazione dell’infrastruttura di cui trattasi».
Ma, considerato tutto questo, i giudici nel passaggio successivo della sentenza scrivono a chiare lettere che «... i ricorrenti non hanno dato prova di tale condizione giacché, pur sostenendo di vivere, soggiornare o essere proprietari di immobili presso le due sponde dello Stretto di Messina, non hanno prodotto (né si sono offerti di produrre) alcun elemento idoneo a dimostrare il loro assunto: né un certificato di residenza, né un titolo di proprietà, né altro documento da cui ricavare, quantomeno in via indiziaria, la titolarità di concreti interessi localizzati nelle zone in cui il ponte dovrebbe essere costruito».
«I ricorrenti - proseguono poi i giudici -, hanno anche aggiunto che alcuni di loro sono attivisti di associazioni ambientaliste o “comunque amano” le sponde dello Stretto: tale condizione soggettiva non è tuttavia idonea a sorreggere un’azione inibitoria collettiva, dal momento che l’amore per l’ambiente e l’interesse alla sua protezione, avendo di mira l’ambiente nella sua connotazione più pubblicistica e non già come bene legato al patrimonio del singolo individuo, esulano dal novero di diritti individuali omogenei tutelabili in questa sede».
Un altro concetto della sentenza legato al ricorso è quello della tempistica del progetto.
Ecco cosa scrivono i giudici romani su questo punto: «... la tutela inibitoria collettiva presupporrebbe pur sempre l’esistenza di un pregiudizio imminente, il rischio del quale sia concretamente e palesemente apprezzabile. Nel caso di specie, invece, i ricorrenti hanno prospettato il pregiudizio in termini del tutto evanescenti ed ipotetici, avendo essi stessi ammesso che “la procedura non ha ancora superato la fase di approvazione del progetto definitivo adottata dal Cipess e che tale adempimento dovrà essere preceduto dalla richiesta del Mit, dopo aver verificato la compatibilità delle valutazioni istruttorie (comprese quelle ambientali) acquisite dalla conferenza dei servizi, anche alla luce delle risultanze della valutazione di impatto ambientale, come disposto al comma 7 dell’art. 3, valutazione ancora in corso”».
«È infatti incontroverso tra le parti che - scrivono ancora i giudici su questo punto -, dopo l’adeguamento del progetto definitivo, avvenuto nel febbraio 2024 in ottemperanza a quanto prescritto dal secondo comma dell’art. 3 del decreto legge n. 35/2023, gli ulteriori procedimenti istruttori e valutativi previsti dai commi 4, 5, 6 e 7 del citato art. 3 sono ancora in corso e non si è ancora giunti all’approvazione del progetto definitivo da parte del Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile, approvazione che, ai sensi del comma 8, “sostituisce ogni altra autorizzazione, approvazione e parere comunque denominato e consente la realizzazione e, per gli insediamenti produttivi strategici, l’esercizio di tutte le opere, prestazioni e attività previste nel progetto approvato”».
E poi i giudici concludono che «... è allora di tutta evidenza quanto sia prematura l’iniziativa giudiziale degli odierni ricorrenti, i quali hanno agito ai sensi dell’art. 840-sexiesdecies c.p.c. non solo in assenza di alcun effettivo danno ambientale che si sia iniziato a produrre in conseguenza di una condotta illecita, ma addirittura senza che il pregiudizio all’ambiente sia stato prospettato come imminente, non potendo seriamente dubitarsi che per la configurazione di un pregiudizio potenziale dovrà quantomeno attendersi il completamento dell’iter procedimentale di cui al summenzionato art. 3.».