di Padre Felice Scalia - Joseph Ratzinger ha lasciato la scena di questo mondo, anche quella che si era ritagliata dopo le dimissioni dalla carica di “Vescovo di Roma”. Una lunga vita la sua, giocata fino in fondo, con innegabile dedizione, come si addiceva ad una persona intelligente, appassionata di ragione pensante e di Cristo (“Signore, ti amo!” sono state le sue ultime parole), di animo insieme delicato e fermo, un tantino felino come i suoi gatti.
Si è parlato tanto di lui in questi giorni. Mi permetto si scrivere alcune mie impressioni su questo papato difficile, travagliato, discusso. Credo che su di esso avranno molto da lavorare gli storici della teologia e della chiesa.
Vedo tre fasi nell’esistenza del “Papa emerito”.
La prima è quella dello studioso di teologia, critico della teologia scolastica, aperto a nuove prospettive, innovatore. Quel teologo entusiasmò anche me, stufo di una teologia astratta, poco aperta alla situazione storica ed all’umano, larvatamente inquinata almeno da tre veleni: culto del passato perché passato, chiusura al mondo degli uomini in carne ed ossa, rigida ed intoccabile gerarchizzazione nella vita della chiesa. Quel teologo, il prof. Ratzinger, entra entusiasta nel “vento nuovo” del Concilio Ecumenico Vaticano II. Insieme al gesuita Karl Rahner, stila l’ossatura delle celebre Costituzione conciliare “Gaudium et spes”, uno dei cardini di tutti cambianti proposti da Padri e Madri del Vaticano II. Quella Costituzione cambiò radicalmente l’atteggiamento della chiesa: non più giudice arcigna dell’umano
ma accompagnatrice del cammino di ogni uomo che fosse sulla faccia della terra. Niente barriere religiose, di colore, di ceto, niente chiusure in progetti riservati ai soli cattolici romani.
La seconda fase è quella del Ratzinger deluso, preoccupato, forse pentito di quanto aveva scritto e fatto. Certamente chi ritorna alla seconda sessione del Concilio, presieduta da Paolo VI, è un’altra persona. Pare che sia rimasto atterrito da una contestazione giovanile che ebbe in Patria. Si convinse che si era andati troppo avanti, che la gente non era preparata alla libertà offerta dal Concilio, soprattutto a sentirsi parte viva ed efficiente della chiesa. Non fu il solo a pentirsi. Celebre il caso del filosofo francese J. Maritain che nel 1966 scrive “Le paysan de la Garonne”. Questa fase, forse esasperata da atteggiamenti larvatamente nevrotici, prepara la terza fase di Ratzinger: il prefetto inflessibile della Congregazione della Fede, della cerchia ideologica di Giovanni Paolo II, e quindi a sua volta uno dei Papi dei 50 anni di anticoncilio, dichiarato o larvato che fosse.
La terza fase della vita di Ratzinger è quella di Benedetto XVI. Uomo che credeva di “sistemare” la chiesa rafforzandone la dottrina, dimostrando se non la razionalità, certo la ragionevolezza del dato di fede, creando preti che avessero come modello il Santo Curato d’Ars. Quest’ultimo appello era in perfetta linea con la marcia-indietro degli anticonciliaristi, con il periodo del “riflusso”. Quel Santo era tanto pio e dedito alla gente, quanto piuttosto incapace di accostarsi alle istanze del suo tempo, marcatamente spiritualista dunque e tradizionale. Con Benedetto XVI, e proprio durante il suo "Anno sacerdotale” del 2009 - 2010, riesplode la scandalosa questione della pedofilia e della corruzione nella Chiesa. La storia ci dirà – forse – se a determinare la sua decisione delle dimissioni sia stato il sentirsi tradito perfino dal suo Camerlengo, o la constatazione del fallimento della sua ricetta “per rinnovare la chiesa”, oppure la certezza che la chiesa aveva bisogno d’altro, non certamente di lui.