8 Gennaio 2025 Giudiziaria

8 gennaio 1993: la mafia uccide Beppe Alfano, il giornalista ”rompicoglioni”

di Giuseppe Cirillo - La sera dell’8 gennaio 1993, la mafia uccise il giornalista Giuseppe Alfano, per i suoi amici “Beppe”. Un cronista coraggioso che svolse sempre il proprio lavoro senza lasciarsi condizionare dalla paura. Un giornalista libero, dunque: libero di fare il suo mestiere e di raccontare ciò che vedeva e ciò che sapeva. Così, trentadue anni fa, a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, Alfano fu ucciso con tre proiettili esplosi da un revolver calibro 22 mentre si trovava a bordo della sua auto, una Renault 9, nei pressi della sua abitazione. Oltre a essere un giornalista coraggioso, Alfano era considerato un “rompicoglioni” perché scriveva tanto, forse troppo. Dagli intrecci tra mafia e politica fino a quelli con la massoneria deviata, Alfano raccontava tutto ciò di cui veniva a conoscenza. Per questo doveva essere eliminato. Il processo per il suo omicidio portò alle condanne definitive del boss Giuseppe Gullotti come mandante e di Antonino Merlino come esecutore materiale. Tuttavia, alcune testimonianze contrastanti sono emerse nel tempo. Il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico ha dichiarato che Merlino sarebbe innocente, indicando inveceStefano Genovese come il vero sicario. Dichiarazioni analoghe sono state fornite da altri pentiti, ma i giudici le hanno ritenute insufficienti e troppo generiche. Nel 2016, la Corte d’assise d’appello ha rigettato anche la richiesta di revisione del processo avanzata dal legale di Gullotti. Ad ogni modo, secondo l’avvocato Fabio Repici, quello di Alfano è un “crimine di altissimo livello e almeno in parte un delitto di Stato”. Un delitto che può essere annoverato, senza timore di esagerare, tra i “peggiori crimini commessi a Barcellona Pozzo di Gotto da Cosa nostra”.
Non sorprende, dunque, che nel corso degli anni l’inchiesta sulla morte del giornalista coraggioso sia stata ostacolata da continui depistaggi. L’arma del delitto, ad esempio, non fu mai sottoposta a una perizia balistica adeguata. L’imprenditoreMario Imbesi, in possesso di una pistola identica, la consegnò alle autorità in modo insolito e senza che vi fosse un reale sequestro. Solo nel 2011, ben diciassette anni dopo il delitto, si stabilì che quell’arma non era collegata all’omicidio di Beppe Alfano.
Anche Sonia Alfano, figlia del giornalista ucciso da Cosa nostra, ha sempre denunciato interferenze e depistaggi. Tra questi, la sparizione di alcuni documenti che avrebbero dimostrato l’esistenza di un traffico di armi e uranio su cui il padre stava indagando e che sparirono dopo la sua morte. “Quegli appunti - ha ricordato - sono spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine. Alle 22:45 dell’8 gennaio 1993 piombarono a casa nostra oltre 50 agenti di vari corpi. Portarono via numerose carte ed effetti personali, ma non tutto ci è stato restituito. Tante cose, anzi, non sono state neanche verbalizzate”. Particolarmente significativa è l’intervista in cui la figlia del giornalista denuncia il ruolo di Olindo Canali, magistrato all’epoca titolare dell’indagine, accusandolo di aver agito con la complicità di apparati istituzionali deviati. Altrettanto significativa fu la mancata cattura del boss Nitto Santapaola, il quale avrebbe trascorso l’ultima parte della sua latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto. Alfano, secondo quanto riferito dalla figlia, avrebbe scoperto la presenza di Santapaola e ne avrebbe parlato al pm Canali. Proprio per questo, sempre secondo Sonia Alfano, il giornalista sarebbe stato ucciso.