Basta procure che mortificano gli avvocati. A dirlo, in una proposta, è il deputato di Forza Italia Tommaso Calderone, che lo scorso 12 luglio ha presentato una proposta per modificare l’articolo 648 del codice penale (ricettazione) inserendo il comma 3 bis: «Fuori dei casi di concorso nel reato, il professionista che riceve pagamenti in denaro quale compenso per l’attività professionale svolta non è tenuto a effettuare controlli o verifiche sulla provenienza delle fonti di reddito del proprio cliente».

La proposta nasce da un recente fatto di cronaca: a maggio, infatti, la procura di Milano ha puntato i propri fari contro due avvocati, difensori del presunto boss della mafia turca Baris Boyun in un altro procedimento, colpevoli, secondo l’accusa, di essersi fatti pagare con denaro sporco «essendone consapevoli, con l’aggravante di avere commesso i fatti nell’esercizio della professione legale in quanto nominati di fiducia» dal turco. Un’opzione che era stata respinta dal gip, che aveva allertato i colleghi pubblici ministeri sul rischio di “screditare” la funzione difensiva, di fatto impedendone il libero esercizio, laddove il pagamento dell’onorario venisse inteso come concorso in un reato. «Ci si deve domandare – scriveva il gip Roberto Crepaldi – che ne sarebbe del diritto di difesa se i rapporti economici tra indagato e difensore fossero scandagliati sotto la lente – particolarmente penetrante – della ricettazione e/o dell’incauto acquisto».

Nessuna interdittiva, dunque, questa la decisione del gip. Ma nel frattempo i due avvocatierano finiti alla gogna e anche sulle grandi testate le ipotesi d’accusa erano state messe in bocca al giudice delle indagini preliminari, che invece le aveva respinte.

Nella relazione che precede la proposta, Calderone, avvocato penalista, scende in campo in difesa dei due colleghi finiti sotto indagine: «È evidente come l’imputazione di ricettazione in relazione ai pagamenti ricevuti dai difensori da parte dei loro assistiti/indagati interferisca con la serenità del rapporto difensivo (intesa come libertà dell’assistito di confidare particolari contra sé e del difensore di ricevere tali confidenze), di creare conflitti di interessi tra difensore e assistito, costringendolo a scegliere tra la rinuncia al mandato e il compenso e, in fondo, interferendo con il diritto costituzionale di difesa – si legge nella relazione -. Siamo di fronte ad un ulteriore caso di una procura che ha nuovamente utilizzato il potere istituzionalmente devolutogli per mortificare l’attività difensiva, delegittimando la funzione esercitata a tutela del cittadino». Secondo il deputato forzista tale atteggiamento rappresenterebbe «un’ulteriore deriva della prassi giudiziaria disancorata dai principi costituzionali, troppo spesso faziosamente enunciati dalla magistratura, ma, ancora una volta, totalmente disattesi».

Da qui la proposta, che «intende chiarire che il difensore, nel momento in cui riceve il pagamento per le prestazioni professionali rese, non deve esser costretto a fare indagini sulle fonti di reddito del proprio assistito. Ciò a tutela del diritto di difesa». La strada era già stata “tracciata” dal gip: quando si ipotizza la ricettazione in capo ad un avvocato, scriveva il giudice, serve «cautela», per un duplice ordine di ragioni. «In primo luogo, egli ha fisiologicamente rapporti economici con soggetti quantomeno sospettati di aver commesso un delitto, cosicché l’eventuale consapevolezza della qualità criminale del proprio debitore – già insufficiente secondo l’opinione della Suprema Corte in relazione ad un normale rapporto obbligatorio – deve essere considerata irrilevante – si leggeva nell’ordinanza -. Se così non fosse, infatti, il difensore non potrebbe mai esigere il pagamento degli onorari dal proprio assistito quando egli gli abbia confessato – in seno al rapporto fiduciario – di essere dedito al crimine, ovvero dopo la condanna definitiva del cliente privo di lecite fonti di reddito. In secondo luogo, non può non evidenziarsi la delicatezza della situazione qui vagliata, stante la necessità di considerare gli interessi sottesi al rapporto difensivo, il quale si differenzia da qualsiasi altro rapporto contrattuale perché attiene al fondamentale – anche sul piano costituzionale – diritto di difesa». Che potrebbe andare a farsi benedire se i rapporti economici tra le parti, appunto, fossero intesi come affari “loschi”.

Ma la norma, chiarisce ancora Calderone, non tutela solo l’avvocato: a beneficiarne sarebbero tutti i professionisti «che si trovano costretti a fare indagini sull’origine dello strumento di pagamento, lecito, del denaro a fronte della prestazione professionale resa. Naturalmente non si vogliono creare sacche d’impunità, quindi l’esenzione dai controlli o verifiche può essere invocata fuori dei casi di concorso nel reato».