GIUDIZIARIA: Assolti i fratelli Chiofalo e revocata la confisca
Una nuova tappa giudiziaria del maxi sequestro Bonaffini-Chiofalo. Quattro assoluzioni con la formula «perché il fatto non sussiste» sono state decise ieri dalla corte d’appello di Reggio di Calabria nei confronti degli imprenditori Gaetano Chiofalo e Domenico Chiofalo, Sarino Bonaffini e Angelo Bonaffini. La corte d’appello, che giudicava su uno stralcio della vicenda processuale dopo un rinvio della Cassazione, in accoglimento delle tesi difensive degli avvocati Carlo Autru Ryolo, Maurizio Cacace, Nino Favazzo, Giuseppe Donato e Salvatore Silvestro, ha ribaltato la sentenza di primo grado emessa dalla prima sezione penale del tribunale di Messina, ed ha disposto anche la revoca della confisca. Ai quattro imprenditori veniva contestato il reato di intestazione fittizia di beni ipotizzato a suo tempo dalla Dda per le operazioni di cessione di quote societarie della nota ditta Pescazzurra S.r.l., della C&B Immobiliare S.r.l. e della Immobiltre S.r.l.. I legali dei fratelli Chiofalo, anche alla luce del recente decreto di revoca della misura di prevenzione, hanno dichiarato «amareggiati, che pur soddisfatti della sentenza, i nostri assistiti hanno dovuto sopportare ben dieci anni di “calvario” prima di ottenere la giusta assoluzione da ogni responsabilità erroneamente loro attribuita».
Sempre nell’ambito di questa vicenda nel gennaio scorso si era registrato un decreto della corte d’appello di Messina, che per un verso aveva sostanzialmente confermato la confisca del patrimonio Bonaffini, e per altro verso aveva restituito i beni alla famiglia Chiofalo. I giudici erano giunti infatti a conclusioni opposte per quanto riguarda le due famiglie, che pure in sede di sequestro erano state accomunate per la confluenza di interessi economici. E se da un lato avevano attualizzato il concetto di pericolosità sociale dei fratelli Sarino e Angelo Bonaffini, per quanto riguarda i fratelli Domenico e Gaetano Chiofalo erano giunti a conclusioni diametralmente opposte, ovvero sulla non pericolosità sin dalle prime mosse della vicenda, ovvero nel 2011. C’era poi un concetto-chiave rivalutato nel provvedimento, e cioé l’analogia evasione fiscale-pericolosità sociale, che era stata in sostanza il “rimprovero” principale della Cassazione alle corti d’appello che avevano deciso in precedenza. In altre parole – aveva detto la Corte -, «… il mero status di evasore fiscale non è sufficiente ai fini del giudizio di pericolosità generica che legittima l’applicazione della confisca, considerato che i requisiti di stretta interpretazione necessari per l’assoggettabilità a tale misura sono indicati dagli artt. 1 e 4 del d.lgs. n. 159 del 2011 e concernono i soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi e che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose, requisiti non automaticamente e necessariamente sovrapponibili alla figura dell’evasore fiscale, in sé e per sé considerato».